I NON MORTI DI PASSO MARINARO
Un team di archeologi, eseguendo importanti scavi nella necropoli di Passo Marinaro, nei pressi dell’antica Kamarina (Ragusa) ha rinvenuto tombe con corredi funerari composti da vasi di terracotta, figurine e monete. Tra le varie scoperte, una in particolare ha colpito l’attenzione degli studiosi.
All’interno di un cumulo sepolcrale sono stati rinvenuti due scheletri che recano grosse pietre ed anfore all’altezza del capo, del torace e dei piedi, ivi posizionati nell’evidente tentativo di bloccare i corpi ed impedirne il movimento o lo spostamento.
Secondo le indagini espletate, gli oggetti erano stati posizionati sui corpi dopo il decesso, testimoniando che la singolare pratica non venne utilizzata per impedirne i movimenti in vita ma per evitare che, dopo la morte, potessero abbandonare il luogo di sepoltura. Alcuni ricercatori ritengono che questa scoperta sia correlata alla esistenza dei così detti Morti Viventi. Il culto dei Revenants era abbastanza diffuso negli antichi greci che colonizzarono la Sicilia intorno al V secolo a.c.. Questo antico e colto popolo, alle origini della civiltà, credeva fermamente nei Non Morti ed adottava specifiche pratiche funerarie per impedire che, dopo la sepoltura, i corpi potessero abbandonare le tombe e perseguitare i vivi.
L.Sulosky Weaver, ricercatrice all’Università di Pittsburgh, afferma che i greci praticavano la negromanzia, come è provato da numerosi incantesimi incisi su lastre di piombo che venivano sistemate nelle tombe nelle cerimonie notturne per scongiurare il ritorno dei morti.
La necrofobia, o paura dei morti, è un concetto presente nella cultura greca sin dal Neolitico. Al centro di questa fobia c’è la convinzione che i cadaveri abbiano la capacità di rianimarsi ed esistere in uno stato che non è né vita né morte, ma piuttosto ‘non-morte’», scrive la Weaver nell’articolo pubblicato su Popular Archaeology. «Queste figure liminali sono ritenute pericolose perché lasciano le loro tombe di notte con l’esplicito scopo di fare del male ai viventi. Come metodo di difesa, i cosiddetti morti viventi venivano bloccati nelle loro tombe o “uccisi ritualmente”.
La prima delle due tombe conteneva il corpo di una persona (il cui sesso non è chiaro) che si era ammalata ed era gravemente malnutrita. La testa era interamente ricoperta di grandi frammenti di anfore. «I pesanti frammenti di anfora trovati nella Tomba 653 avevano presumibilmente il compito di bloccare la persona nella tomba per impedirle di vedere o di rialzarsi».
L’altra tomba conteneva i resti di un bambino, sempre di sesso indefinito, che aveva tra gli 8 e i 13 anni al momento della morte. Sul corpo si trovavano cinque grandi pietre. La Weaver scrive: «I greci immaginavano situazioni in cui corpi rianimati si rialzavano dalle loro tombe, si aggiravano furtivamente per le strade e pedinavano vittime ignare, spesso per reclamare giustizia per un torto subito mentre erano in vita. Persino coloro che non potevano fisicamente lasciare le loro tombe rappresentavano una minaccia, perché i medium potevano facilmente invocare spiriti irrequieti e indurli a commettere atti atroci. Questo modo di pensare era comune all’epoca».