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RINA FORT E LA STRAGE DI VIA SAN GREGORIO

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Il 30 Novembre del 1946, a Milano, in Via San Gregorio, si consumò una delle stragi più macabre del dopoguerra. Una madre ed i suoi tre figli vennero barbaramente uccisi. Dell’omicidio venne accusata Rina Fort, amante del marito della vittima.

Il delitto è passato alle cronache come “La strage di Via San Gregorio” così come la sua autrice venne definita “La Belva di Via San Gregorio”. In questo articolo ripercorriamo le tappe di questa sanguinosa vicenda.

I FATTI

E’ il 30 Novembre del 1946. La commessa di un negozio di tessuti, di proprietà di tale Giuseppe Ricciardi, si reca nell’appartamento del titolare, ubicato a Milano in Via San Gregorio n.40, per rilevarne le chiavi. La donna, appena arrivata sull’uscio, si trova dinanzi ad una scena agghiacciante: sul pavimento intriso di sangue, riversi a terra, si trovano i corpi di una donna e di tre bambini. Sul posto sopraggiungono le forze dell’ordine che identificano le vittime: si tratta di Francesca Pappalardo, di 40 anni, e dei suoi figli minori Antonio, di 10 mesi, Giuseppina, di 5 anni, e Giovanni, di 10.

La casa è a soqquadro, ma quel che colpisce gli investigatori è la particolare efferatezza del crimine. I corpi di Francesca e Giovanni si trovano nel salone a poca distanza mentre quelli di Giuseppina ed Antonio stanno in cucina. Quest’ultimo è ancora seduto sul seggiolone ed ha un pannolino in bocca. I muri sono coperti di schizzi e tracce di sangue. E’ stato prelevato qualche oggetto, alcuni gioielli ed una modica quantità di denaro ma gli agenti capiscono subito che si tratta di un depistaggio per simulare una rapina.

Le indagini vengono affidate al noto commissario della Squadra Mobile di Milano Dott. Mario Nardone che contatta immediatamente Giuseppe Ricciardi, marito della vittima. E’ proprio Ricciardi, che in quel momento si trovava fuori Milano, ad indicare Rina Fort (31 anni) quale probabile autrice del massacro. Dalle sue dichiarazioni emerge che quest’ultima era da diverso tempo amante di Ricciardi e che la loro relazione si era incrinata quando la moglie Francesca Pappalardo aveva deciso di trasferirsi da Catania a Milano per interrompere la relazione adulterina.

Il 30 Novembre del 1946, nel primo pomeriggio, Caterina Fort (detta Rina) viene arrestata con l’accusa di omicidio volontario aggravato.

CHI ERA RINA FORT

Rina Fort era una donna di origine friulana che proveniva da un’infanzia tormentata. Il padre era morto quando era ancora una bambina. Fece seguito, in età adulta, la morte per tubercolosi del ragazzo che avrebbe voluto sposare. All’età di 22 anni aveva contratto matrimonio con un compaesano che, poco tempo dopo, venne rinchiuso in manicomio perché affetto da seri squilibri mentali. Vive in condizioni estremamente disagiate e decide trasferirsi dalla sorella a Milano, alla ricerca di una stabile occupazione lavorativa. E’ qui che conosce Giuseppe Ricciardi, detto Pippo, titolare di un’avviata merceria. Tra i due nasce una relazione sentimentale. L’uomo è coniugato (circostanza che viene nascosta alla Fort) e la moglie (Francesca Pappalardo) vive a Catania con i tre figli ancora in minore età. Quando Franca ha notizia della tresca, decide di raggiungere il marito a Milano, per recuperare il rapporto che minacciava la serenità della famiglia. A questo punto, Pippo è costretto a rivelare la verità a Rina, licenziandola dal posto di lavoro per evitare ulteriori complicazioni e scandali.

LE INDAGINI ED IL PROCESSO

Il Commissario Nardone non ha dubbi. L’autrice del massacro non può che essere la Fort, che tentò di vendicarsi sopprimendo la famiglia dell’amante ed eliminando la rivale in amore. Vengono esaminati i primi indizi, tra cui tre bicchieri sporchi di liquore (segno che la vittima conosceva l’assassino) ed una foto nuziale strappata e gettata sul pavimento, testimoniante la natura passionale del crimine.

Caterina Fort, inizialmente, rifiuta gli addebiti. Poi cede, in seguito ad un geniale stratagemma del Dott. Nardoni, il quale le mostra una sciarpa sporca di rossetto appartenente al Ricciardi “Vedi”, le dirà, “mentre tu sei carcere, il tuo amante se la spassa…”. La Fort inizia a collaborare ed approccia una agghiacciante confessione. Racconta di avere incontrato la Pappalardo in Via San Gregorio e, dopo aver bevuto del liquore offertole, di averla massacrata con un ferro da stiro. Si sarebbe quindi avventata sui piccoli, massacrandoli con le stesse modalità. Avrebbe gettato dell’ammoniaca sui corpi ancora in vita ed introdotto sulle loro bocche della garza per accelerare il soffocamento.

La confessione è ritenuta credibile, ma qualcosa non torna. Come ha potuto, una sola donna, compiere un simile massacro? Inoltre, sul tavolo da cucina, vengono rinvenuti tre bicchieri con tracce di liquore, segno che le persone presenti dovevano essere almeno tre.

Due settimane dopo, Rina Fort offre un’altra versione dei fatti. Non ha ucciso da sola ma in compagnia di un complice, tale Carmelo, il quale avrebbe trucidato i piccoli mentre lei si accaniva sulla Pappalardo. In ordine al movente, spiega che l’intenzione era quella di spaventare la donna per convincerla ad abbandonare Milano e rientrare a Catania, per consentire alla Fort di proseguire la sua relazione con Ricciardi, il quale viene additato come mandate della spedizione punitiva poi degenerata.

Qualche sospetto la polizia lo nutre, soprattutto quando nota che il Ricciardi, durante il sopralluogo sulla scena del crimine non dimostra alcun turbamento e sembra più preoccupato di individuare gli oggetti mancanti dall’appartamento.

La polizia si mette alla ricerca di Carmelo. Se ne trovano ben cinque con quel nome, ma solo uno, Carmelo Zappulla, non ha un alibi per la sera della strage. Vengono arrestati la Fort e Zappulla come sospetti esecutori materiali della strage e Ricciardi quale mandante. Dopo più di un anno e mezzo di carcere preventivo, i due uomini vengono scarcerati perché considerati estranei al delitto. In particolare, durante un confronto diretto, la Fort non riconobbe Zappulla ed indicò come “Carmelo” un poliziotto in borghese al suo fianco.

Il processo inizia il 10 Gennaio del 1950. Rina Fort entrò “in scena” indossando una sciarpa di lana gialla, che le valse l’appellativo di “belva con la sciarpa color canarino”. Durante l’istruttoria, l’imputata si dichiarò colpevole del reato ma negò categoricamente di avere ucciso i piccoli, addebitando il fatto al proprio complice.

All’esito del giudizio, la Corte Di Assise la condannò all’ergastolo, poi confermato dalla Corte di Cassazione il 25 Novembre del 1953. Durante il processo Rina pronunciò una frase rivolgendosi ai giudici che passerà alla storia: “Potrei dire che non ho paura della sentenza. Faranno i giudici. Mi diano 5 anni o l’ergastolo, a che può servire? Ormai sono la Fort! “.

Nel 1975, dopo quasi 30 anni di reclusione, Rina Fort ottenne la grazia dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone.

Morì di infarto il 30 Marzo del 1988.

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