Lettera di Plinio il Giovane

Lettera di Plinio il Giovane
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Lettera di Plinio il Giovane (111-113 d.C. circa)

Verso la fine della sua vita, probabilmente dal 111 al 113 d.C., Plinio il Giovane (61-113 d.C.) ricoprì l’incarico di governatore (legatus pro praetore) della Bitinia e del Ponto. L’opera maggiore di Plinio il Giovane è costituita da una raccolta di epistole scritte tra il 96 d.C. e l’anno in cui morì. Nell’ultimo libro della raccolta, che uscì dopo la morte di Plinio, sono contenute le 123 lettere scritte durante il suo mandato in Bitinia. Il libro X contiene sia lettere inviate da Plinio a Traiano, sia lettere inviate a Plinio dall’imperatore di Roma. In esso sono contenute due lettere, nella prima, nota come lettera 96 e inviata da Plinio a Traiano, il governatore informa l’imperatore delle attività riguardanti i processi ai cristiani e contiene alcune domande sulla giusta procedura da seguire in quei processi; la seconda, inviata da Traiano a Plinio, è la lettera 97 e costituisce la risposta dell’imperatore alla precedente lettera del governatore.

Nella lettera 96 del suo epistolario Plinio informa che durante il periodo in cui fu governatore della Bitinia si svolgevano processi contro i cristiani. Egli utilizza con precisione in latino i termini cristiano/i e Cristo, al contrario del Chrestus di Svetonio. Da quanto scrive Plinio, venivano condannati i cristiani per il solo fatto di aderire a questa religione, definita come una “superstizione balorda e smodata” (superstitionem pravam et immodicam), in linea con il pensiero degli storici romani del periodo. Apprendiamo dalla lettera che i cristiani si rifiutavano di venerare l’immagine dell’imperatore (reato di laesa maiestas) e non riconoscevano gli dei romani (sacrilegium): questi erano i motivi per cui venivano condannati, quando in aggiunta non avevano commesso altri reati, il popolo infatti attribuiva ai cristiani un certo numero di azioni abominevoli, contrari al costume, quali incesto, infanticidio, stregoneria, probabilmente a causa della ignoranza dei riti e delle celebrazioni cristiane. La richiesta principale che Plinio inoltra a Traiano è “se vada punito il nome di per se stesso, pur se esente da colpe, oppure le colpe connesse al nome“, ovvero se sia punibile un cristiano solo per la sua appartenenza ad una setta considerata una superstizione e invisa sia a gran parte della popolazione comune che della classe dirigente e intellettuale romana, oppure se occorrano delle prove tangibili e dei fatti che dimostrino concretamente che i cristiani sotto processo hanno effettivamente violato le leggi romane, rifiutandosi di adorare l’imperatore, profanando gli dei di Roma o commettendo altri crimini. Sulla perseguibilità del semplice nomen è facile qui riferirsi al noto passo evangelico: “voi sarete odiati da tutti a causa del mio nome” (Matteo, 13:13). Per i cristiani che avevano commesso simili reati e non rinnegavano Cristo era prevista la pena di morte, come scrive Plinio: quelli che perseveravano, li ho mandati a morte“. Plinio informa anche che esistevano diversi cittadini romani che avevano aderito alla nuova religione, per questi non era prevista la pena capitale ma venivano condotti a Roma. La risposta di Traiano a Plinio, nella successiva lettera 97, conferma la massima repressione per i cristiani, che comunque non dovevano essere ricercati dalle autorità ma processati solo se denunciati da qualcuno dalle autorità. La richiesta inoltrata da Plinio il Giovane a Traiano e la successiva risposta dell’Imperatore sono la prova che fino a quel momento non esistevano particolari provvedimenti contro i cristiani, altrimenti Plinio non avrebbe sentito la necessità di rivolgersi a Traiano, avendo a disposizione un senatusconsultum sul quale basarsi. Inoltre nella sua risposta Traiano non ritiene necessario ricercare e perseguitare i cristiani, essi vanno puniti solo se vengono denunciati all’autorità. Secondo Giorgio Jossa, autore di un libro sui rapporti tra cristiani e impero romano nel periodo da Tiberio a Marco Aurelio, i cristiani:

“Moralmente riprovevoli, essi non sono politicamente pericolosi.  Perciò, pur ritenendoli in qualche modo colpevoli, Traiano  non ritiene opportuno perseguirli. E quindi, anche dopo che si sia raggiunta la prova della loro colpevolezza, offre ancora ai cristiani la possibilità di ottenere il perdono mediante l’apostasia. In tal modo vengono fissati due principi importantissimi, che non potevano non rivelarsi alla lunga sostanzialmente favorevoli ai cristiani: la necessità della denuncia da parte di un privato perchè si metta in moto il procedimento giudiziario contro i cristiani, e la possibilità di ottenere il perdono mediante l’apostasia, che offre ai cristiani un mezzo concreto per evitare la condanna.”  [1]

Plinio sottolinea alcune peculiarità che contraddistinguevano i cristiani di quel periodo (siamo tra il 111 e il 113 dopo Cristo):

1) I cristiani erano soliti riunirsi prima dell’alba e intonare un inno a Cristo. Questo sembra essere un elemento che accomuna i cristiani descritti da Plinio alla setta ebraica degli Esseni in quanto Giuseppe Flavio riferisce che gli Esseniprima che si levi il sole non dicono una sola parola su argomenti profani, ma soltanto gli rivolgono certe tradizionali preghiere, come supplicandolo di sorgere” (cfr. Guerra Giudaica, libro 2, 119-161).

2) I cristiani si riunivano per prendere parte ad una celebrazione che prevedeva la consumazione di un cibo comune. Anche questo elemento potrebbe essere un punto di contatto con la setta essena descritta da Giuseppe Flavio:

Dopo che si sono seduti in silenzio, il panettiere distribuisce in ordine i pani e il cuciniere serve a ognuno un solo piatto con una sola vivanda. Prima di mangiare, il sacerdote pronuncia una preghiera e nessuno può toccare cibo prima della preghiera. Dopo che hanno mangiato, quello pronuncia un’altra preghiera; così al principio e alla fine essi rendono onore a Dio come dispensatore della vita.” (Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, libro 2, 119-161).

Notiamo comunque che nel caso degli Esseni, secondo la descrizione di Giuseppe Flavio, più che di un rito speciale ed unico nel suo genere siamo davanti piuttosto alla santificazione dei pasti corrispondenti al pranzo e alla cena. Infatti Giuseppe Flavio nello stesso passo della Guerra Giudaica aggiunge che dopo il pranzo gli Esseni si recano al lavoro, fino a sera e “al rientro mangiano allo stesso modo, in compagnia degli ospiti, se ve ne sono“. La celebrazione eucaristica come rito dei primi cristiani è ben conosciuta nelle lettere di Paolo: non si trattava di un pasto come quello degli Esseni, che nella descrizione di Giuseppe Flavio rimane un semplice pasto quotidiano che si ripete due volte al giorno, è ben nota l’esortazione di Paolo nella prima lettera ai Corinzi (cfr. 1 Cor 17:20-33), una epistola considerata autentica, alla quale si rimanda. Tutte le purificazioni e le abluzioni caratteristiche degli Esseni raccontate da Giuseppe Flavio nel medesimo passo della Guerra Giudaica sono inoltre assenti nella lettera di Plinio il Giovane.

3) Due donne (ancelle, lat. ancillis) furono trovate da Plinio come “ministre” (lat. ministrae), probabilmente avevano un ruolo di rilievo nelle celebrazioni. Questa caratteristica sembra proprio non essere compatibile con le descrizioni degli Esseni fornite da Giuseppe Flavio, Filone di Alessandria e Plinio il Vecchio. Tutti questi autori, infatti, descrivono gli Esseni come una setta che ammetteva un rigoroso celibato e rifiutava senza alcuna riserva la presenza femminile tra i propri adepti. Soltanto Giuseppe Flavio accenna all’esistenza di un gruppo di Esseni che ammettevano il matrimonio ma non sappiamo quale fosse il ruolo della donna in rapporto alle celebrazioni religiose [2].

In latino il termine ministra può avere essenzialmente tre significati: 1) schiava (o serva), 2) aiutante (in senso figurato), infine: 3) sacerdotessa. Vista l’estrema intransigenza degli Esseni nell’ammettere anche la sola presenza femminile all’interno del loro gruppo è altamente improbabile che le due donne “sacerdotesse” appartenessero a quella setta. Ma che dire dell’ambito cristiano? E’ ipotizzabile che nei primi secoli siano esistite sacerdotesse cristiane? Quello che emerge dalla ricerca storica e filologica è che la questione femminile all’interno delle comunità cristiane certamente non era vista in maniera così radicale come all’interno della comunità degli Esseni o nell’attuale cristianesimo moderno (soprattutto cattolico). Molte donne, secondo i vangeli canonici, seguivano Gesù e ad esse i vangeli riservano il determinante ruolo di scoprire la tomba vuota di Gesù risorto e annunciare la risurrezione agli apostoli. Dall’epistolario paolino e dagli Atti degli Apostoli sappiamo che le donne prendevano parte alle assemblee e alle celebrazioni cristiane ed erano ammesse nelle comunità, ma non è chiaro fino a che punto potessero salire di grado nella gerarchia della Chiesa primitiva.

Nelle epistole di Paolo vi sono due passaggi che, ad una prima lettura, sembrano chiarire in modo indiscutibile la posizione della donna all’interno delle comunità cristiano-paoline. Quanto scritto da Paolo nella prima lettera a Timoteo: “la donna impari in silenzio, con tutta sottomissione; non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo” (1 Tim. 2:12) e nella prima lettera ai Corinzi: “come in tutte le comunità di fedeli le donne nelle assemblee tacciano perchè non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse come dice anche la legge, se vogliono imparare qualcosa interroghino a casa i loro mariti, perchè è sconveniente per una donna parlare in assemblea” (1 Cor. 14:34-35) rivela un atteggiamento profondamente negativo nei confronti della donna da parte di Paolo per cui è ragionevole supporre che i gradi più elevati del sacerdozio cristiano sicuramente erano preclusi alle donne, almeno nell’ambito delle comunità fondate da Paolo: difatti all’inizio del Cap. 3 della prima lettera a Timoteo Paolo riserva ai soli uomini l’episcopato.

Se il testo di 1 Tim. 2:12 e 1 Cor. 14:34-35 è manifestamente contrario alla figura della donna, da un punto di vista storico e filologico sono emersi grossi dubbi circa l’autenticità di questi due passaggi che potrebbero non essere mai stati scritti da Paolo. Il primo proviene da una epistola, 1 Timoteo, che quasi tutti gli studiosi moderni considerano completamente spuria, composta da qualcuno a nome di Paolo molti anni dopo la sua morte [3]. Nella stessa lettera a Timoteo, inoltre, Paolo preclude l’episcopato alle donne, tuttavia non sembra affatto escludere la presenza femminile tra i diaconi (cfr. 1 Timoteo 3:11). Il secondo passaggio appartiene a una epistola, 1 Corinzi, considerata autentica, tuttavia sono emersi dubbi sulla autenticità della frase sulle donne in 1 Cor. 14:34-35. Soltanto alcuni capitoli prima Paolo aveva scritto: “Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata” (1 Cor. 11:5), ammettendo così che le donne possono parlare e persino profetare nelle assemblee. Inoltre è stato osservato che 1 Cor. 14:34-35 è parentetico e del tutto fuori contesto rispetto all’argomento trattato da Paolo in 1 Cor. 14:26-40. Prima Paolo parla dei profeti e del comportamento che devono osservare durante le assemblee (1 Cor. 14:29-33), poi improvvisamente il discorso si interrompe e troviamo il passo sulle donne che devono tacere nelle assemblee (1 Cor. 14:34-35), subito dopo il discorso ritorna sui profeti, laddove era stato interrotto (1 Cor. 14:36-40). Pertanto è possibile che sia stato inserito da una mano diversa da quella di Paolo.

A sconfessare l’autenticità di questi passaggi paolini così fortemente misogini aiuta anche una analisi del rapporto tra Paolo e le donne in altri contesti. Nei saluti conclusivi che troviamo nel cap. 16 dell’epistola ai Romani, considerata autentica, Paolo in 16:1 parla di alcune donne, nominando Febe e definendola diaconessa della chiesa di Cencre (Sun…sthmi d Øm‹n Fo…bhn t¾n ¢delf¾n ¹mîn, oâsan di£konon tÁj ™kklhs…aj tÁj ™n Kegcrea‹j); Giunia, menzionata in 16:7 assieme ad Andronico, è considerata un apostolo insigne che era in Cristo prima della conversione di Paolo (¢sp£sasqe ‘AndrÒnikon kaˆ ‘Iouni©n toÝj suggene‹j mou kaˆ sunaicmalètouj mou, o†tinšj e„sin ™p…shmoi ™n to‹j ¢postÒloij, o‰ kaˆ prÕ ™moà gšgonan ™n Cristù). Altre donne menzionate nel cap. 16 sono Prisca, compagna di Aquila, Maria, Perside, la sorella di Nereo e Giulia. Tutte queste donne erano predicatrici cristiane che necessariamente devono aver svolto un ruolo importante all’interno delle comunità paoline. Anche un apocrifo noto come Atti di Tecla, composto verosimilmente verso la fine del II secolo d.C., racconta la storia di Paolo e di una sua convertita, Tecla, una figura che nel proto cristianesimo ebbe una importanza forse paragonabile a quella di Maria, la madre del Signore, oggi. Se Paolo avesse nutrito un tale disprezzo per le donne in generale come nei due passaggi di 1 Tim. 2:12 e 1 Cor. 14:34-35, come spiegare il suo rispetto per le figure femminili nei saluti conclusivi dell’epistola ai Romani, la nascita della tradizione confluita negli Atti di Tecla e Galati 3:28 in cui egli scrive: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”, dimostrando così di non fare differenze di sesso tra uomo e donna? Ovviamente questi passaggi vanno confrontati con quella che era la situazione femminile nel contesto del mondo greco-romano. La donna, infatti, non era considerata come oggi nella sua qualità di sesso femminile, diversa dall’uomo ma appartenente alla stessa specie “umana”. Al contrario si riteneva che fosse uno stadio di sviluppo inferiore all’essere umano maschio, una sorta di uomo imperfetto. Se gli animali erano considerati inferiori all’uomo, la donna si collocava a metà strada tra gli animali e l’essere umano maschio. Questa scarsa considerazione della donna nel mondo greco-romano emerge dalle opere di medici, poeti, filosofi ed altri autori. Anche nel mondo ebraico del tempo in cui vissero Gesù e Paolo la donna era scarsamente considerata. Nel tempio di Gerusalemme le era riservato un cortile apposito, situato tra quello degli uomini e quello dei gentili. Nelle sinagoghe la donna non aveva diritto di parola e aveva un posto a parte, distinto da quello degli uomini. Alla luce di questo, possiamo al contrario ritenere che Paolo fosse in verità alquanto aperto nei confronti delle donne, dato il contesto culturale e storico nel quale operò. Un passo come Gal. 3:28 andrebbe confrontato con l’affermazione di Giuseppe Flavio secondo cui “sotto tutti i punti di vista, la donna conta meno dell’uomo.” [4].

Giorgio Otranto, professore di Storia del cristianesimo all’Università di Bari, ha condotto uno studio della documentazione letteraria ed epigrafica disponibile dalla quale dimostra  che nei primi secoli del cristianesimo alcune donne furono ordinate sacerdotesse e svolsero compiti che la tradizione successiva via via riserverà soltanto agli uomini. La ricerca del Prof. Otranto riguarda essenzialmente il fenomeno in ambito italiano ed è supportata da testimonianze che vanno dal IV secolo dopo Cristo in poi, certamente descrive un fenomeno minoritario ma è possibile che ai tempi di Plinio il Giovane, all’inizio del II secolo dopo Cristo, in oriente le donne avessero un ruolo significativo nelle celebrazioni cristiane, come appare dal testo di questa lettera di Plinio e come alcuni riferimenti al diaconato nella prima lettera a Timoteo lasciano intravedere [5]. Di conseguenza una rilettura dell’epistolario paolino e dei passaggi incriminati che sembrano sminuire il ruolo della donna all’interno della Chiesa primitiva e le ricerche di Otranto ed altri provano che le donne svolsero un ruolo attivo nei primi secoli del cristianesimo. Ne segue che il riferimento di Plinio alle ministrae dell’epistola 96 è perfettamente riconducibile a due predicatrici cristiane intercettate dai soldati di Plinio o denunciate a loro.

Veniamo ora ai testi. Lettera di Plinio il Giovane all’Imperatore Traiano (lettera numero 96 del libro X dell’Epistularum):

E’ per me un dovere, o signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto. Chi infatti può meglio dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza? Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani; pertanto, non so che cosa e fino a qual punto si sia soliti punire o inquisire. Ho anche assai dubitato se si debba tener conto di qualche differenza di anni; se anche i fanciulli della più tenera età vadano trattati diversamente dagli uomini nel pieno del vigore; se si conceda grazia in seguito al pentimento, o se a colui che sia stato comunque cristiano non giovi affatto l’aver cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se stesso, pur se esente da colpe, oppure le colpe connesse al nome.

Nel frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali Cristiani, ho seguito questa procedura: chiedevo loro se fossero Cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti non dubitavo che, qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma. Ben presto, poiché si accrebbero le imputazioni, come avviene di solito per il fatto stesso di trattare tali questioni, mi capitarono innanzi diversi casi.

Venne messo in circolazione un libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che negavano di essere cristiani, o di esserlo stati, ritenni di doverli rimettere in libertà, quando, dopo aver ripetuto quanto io formulavo, invocavano gli dei e veneravano la tua immagine, che a questo scopo avevo fatto portare assieme ai simulacri dei numi, e quando imprecavano contro Cristo, cosa che si dice sia impossibile ad ottenersi da coloro che siano veramente Cristiani.

Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo negarono; lo erano stati, ma avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da vent’anni. Anche tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei, e imprecarono contro Cristo.

Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito l’esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più ritenni necessario l’interrogare due ancelle, che erano dette ministre, per sapere quale sfondo di verità ci fosse, ricorrendo pure alla tortura. Non ho trovato null’altro al di fuori di una superstizione balorda e smodata.

Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa superstizione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma.

Lettera di Plinio a Traiano, Epistularum, X, 96

Trad. italiana di A. Nicolottiwww.christianismus.it

Risposta dell’Imperatore Traiano a Plinio il Giovane (lettera 97 del Libro X dell’Epistularum); si noti che una lettera riguardante simili problematiche fu inviata dall’imperatore Adriano, successore di Traiano, verso il 112 dopo Cristo al proconsole d’Asia Caio Minucio Fundano (Eusebio, Storia Ecclesiastica, IV, 9, 2-3).

Mio caro Plinio, nell’istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati come Cristiani, hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola generale che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare; qualora vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà negato di essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque abbia suscitato sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione, non devono godere di considerazione in alcun processo; infatti è prassi di pessimo esempio, indegna dei nostri tempi.

Lettera di Traiano a PlinioEpistularum, X, 97

 

Trad. italiana di A. Nicolottiwww.christianismus.it

 

NOTE AL TESTO

[1] G. Jossa, I cristiani e l’impero romano, Carocci, Roma, 2000, pag. 112.

[2] Si noti che gli scavi nei tre cimiteri del sito archeologico di Qumran, dove quasi tutti gli studiosi pensano si trovasse l’antica setta degli Esseni o una Comunità da essi discendente, sembrano confermare queste tesi. Nei cimiteri, sebbene siano state scavate poche tombe, sono stati ritrovati pochissimi corpi femminili o di bambini e questi sembrano non essere riconducibili alle caratteristiche della massa delle sepolture, che hanno un allineamento nord-sud invece che est-ovest. Vedi J. Zias, The Cemetery of Qumran, Celibacy: Confusion Laid to Rest?, Dead Sea Discoveries 7, 2000, pp. 220-253.

[3] Tra i sostenitori della autenticità di 1 Timoteo va comunque segnalato J.A.T. Robinson che in Redating the New Testament (London, 1976) la data al 55 d.C. sulla base di considerazioni storiche e testuali. Le tesi di Robinson, sebbene lette e studiate nel mondo scientifico, sono tuttavia altamente minoritarie e la maggior parte dei biblisti sia laici che cristiani propende per la falsità di 1 Timoteo.

[4] Agli Atti di Tecla e ai rapporti tra Paolo e le donne ha dedicato un intero capitolo del suo libro divulgativo Bart D. Ehrman, I Cristianesimi perduti, trad. it. di L. Argentieri, Carocci, Roma, 2005, pp. 49-70 (la prima edizione in inglese di questo testo è stata pubblicata nel 2003). Vedi anche pp. 89-90 per l’interpretazione del loghion 121 del vangelo apocrifo di Tommaso (copto), un passo fortemente contrario alla figura della donna, interpretato da Ehrman alla luce della condizione femminile nel mondo greco-romano del I-II secolo dopo Cristo.

Sulla condizione sociale della donna nel mondo ebraico va ricordato che “Le donne non potevano ereditare e non erano ammesse come testimoni nei processi. Esse non avevano accesso ai banchetti solenni, ai quali erano invitati ospiti. Solo nella cena del sabato e nel banchetto pasquale potevano comparire. La presenza di donne al banchetto degli uomini rappresentava un fatto straordinario, sorprendente (cfr. Mc. 14,3 parr.; Lc. 7,36-50)” (da: Joachim Gnilka, Gesù di Nazaret, trad. it. di F. Tomasoni, Paideia editrice, Brescia, 1993, pp.95-96; prima edizione in tedesco nel 1990). Inoltre, “Discepole erano inimmaginabili nel rabbinato giudaico. Anche per il culto della sinagoga erano prescritti soli uomini. La donna non leggeva la torà, non partecipava al banchetto pasquale. La preghiera delloShema’ le era vietata. Il precetto del sabato non valeva per essa in modo assoluto. Impartire istruzione religiosa a donne non era affatto ovvio” (da: Joachim Gnilka, op. cit., pp. 234-235). In realtà queste considerazioni riportate da Gnilka nel suo libro meritano un approfondimento. Secondo le fonti talmudiche, si veda in particolare il trattato Pesachim riguardante la Pasqua ebraica, il korban Pesach si mangiava in gruppi di circa trenta persone composti da più famiglie comprensive di uomini, donne e bambini. La donna, come l’uomo, è obbligata a mangiare il korban Pesach e può anche offrirlo al posto del marito malato. Il Talmud cita anche la possibilità di costituire gruppi di sole donne per mangiare il korban Pesach. Gnilka sembra contraddirsi quando afferma prima che la donna poteva comparire nel banchetto di Pasqua (pag. 95), poi che non poteva partecipare al banchetto pasquale (pag. 234). Secondo il diritto ebraico, anticamente la donna poteva leggere la Torah in pubblico. La Mishnah afferma che una donna poteva far parte dei sette lettori che eseguono la lettura pubblica di sabato. Ad un certo punto si ritenne che la presenza femminile fosse poco onorevole per il pubblico e invalse l’uso di invitare alla lettura soltanto uomini. In masecht Meghillah 23a abbiamo:

Traduzione: “Ripetevano i nostri maestri: ‘Tutti possono far parte del numero dei sette, anche il piccolo e la donna’. Però dissero i saggi: ‘La donna non legga la Torah perchè ciò non onora il pubblico’” (Meghillah, 23a).

[5] Vedi G. Otranto, Il sacerdozio femminile nell’antichità cristiana, Journal of Feminist Studies, 7, 1991, n. 1, pp. 73-94.

Fonte: Gianluca Bastia http://digilander.libero.it/Hard_Rain/storia/Pliniogiovane.htm


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