Storicità di Gesù e Testimonium Flavianum: si tratta di una interpolazione.
TESTIMONIUM FLAVIANUM
Giuseppe figlio di Matthias (37-103 d.C. circa) è ricordato come scrittore e storico ebreo del I secolo dopo Cristo. Fu comandante militare dell’esercito dei Giudei durante la guerra del 66-74 d.C. contro i Romani, in seguito passò dalla parte dei nemici e divenne un protetto dell’imperatore Vespasiano. Giuseppe discendeva dalla nobiltà ebraica: la madre dai principi Asmonei, il padre apparteneva alla classe sacerdotale di Ioarib (1 Cr 24:7-19). Dopo aver fatto varie esperienze religiose e passati tre anni nel deserto conducendo una vita ascetica sotto la guida di un maestro, ritornò a Gerusalemme dove aderì alla setta dei Farisei e venne avviato alla carriera politica. Sappiamo che all’età di ventisei anni si recò a Roma per difendere, con successo, la causa di alcuni sacerdoti suoi connazionali. Alla vigilia dello scoppio della guerra giudaica, dopo che il legato di Siria Cestio Gallio venne cacciato dagli ebrei insorti in tutta la Palestina, Giuseppe fu nominato generale dal Sinedrio e divenne governatore della Galilea. Sebbene nei suoi scritti Giuseppe si sia in seguito dichiarato ben cosciente della supremazia militare romana e dell’inutilità della rivolta ebraica, resistette per quarantasette giorni assediato entro la città di Iotapa dalle truppe romane, incitando alla resistenza i cittadini. Alla caduta della città Giuseppe si rifugiò con i suoi soldati, ormai ridotti a quaranta uomini soltanto, in una grotta. I suoi compagni erano risoluti a suicidarsi pur di non cadere nelle mani dei nemici e subire l’onta della prigionia. Ma Giuseppe prima convinse i suoi soldati a farsi uccidere per mano di un altro compagno e con uno stratagemma fece in modo di rimanere l’ultima persona viva del gruppo. Invece di suicidarsi per ultimo si consegnò prigioniero ai Romani. Giuseppe chiese quindi di essere ascoltato da Vespasiano, a quel tempo il generale che comandava l’esercito Romano contro gli ebrei. Giuseppe abilmente si presentò al comandante romano come profeta, predisse che Vespasiano sarebbe stato nominato Imperatore, fatto che di lì a poco regolarmente accadde davvero. Le doti divinatorie di Giuseppe, del resto, lo avevano già portato ad indovinare la durata esatta dell’assedio di Iotapa. Vespasiano allora lo liberò dalla prigionia verso il 70 dopo Cristo, Giuseppe sposò completamente la causa romana cercando di convincere i propri connazionali dell’inutilità della rivolta contro i romani. Con Vespasiano ormai diventato Imperatore le operazioni militari proseguirono in Giudea sotto il comando di Tito, il figlio di Vespasiano. Pare che Giuseppe abbia assistito all’assedio di Gerusalemme, nella fase più cruenta della guerra giudaica che culminò con la distruzione del Tempio e della città. Giuseppe, pur essendo entrato nelle grazie di Vespasiano e di suo figlio Tito, in questo periodo non godette di buona fama né presso gli ebrei, che lo consideravano un traditore e un nemico, né presso la maggioranza dei Romani che guardavano con sospetto al suo voltafaccia politico. Giuseppe assunse poi l’appellativo romano di Flavio, con il quale ancora oggi è ricordato.
Gli scritti di Giuseppe Flavio
Gli scritti di Giuseppe Flavio sono di importanza fondamentale per ricostruire la storia del popolo ebraico, soprattutto nel I secolo dopo Cristo, periodo in cui visse e del quale fu testimone oculare. La prima opera scritta da Giuseppe fu Guerra Giudaica, Ioudaikoà pÒlemoj, in latino De Bello Iudaico, pubblicata verso il 75 dopo Cristo e composta nel periodo successivo alla fine della guerra del 66-74. L’opera, suddivisa in sette libri, inizia con un riassunto degli eventi della Palestina a partire dal tempo dei Maccabei (II sec. a.C.) e prosegue con il racconto dettagliato della guerra giudaica del 66-74 dopo Cristo, culminata con la distruzione del Tempio di Gerusalemme (70 d.C.) e di gran parte della città, comprese le mura. Il racconto è concentrato specialmente sugli eventi della guerra giudaica a partire dalla rivolta del 66 dopo Cristo. Dobbiamo subito sottolineare che questa e le altre opere di Giuseppe Flavio sono fortemente filo romane, tutti i movimenti rivoluzionari e nazionalistici ebraici sono condannati senza appello, Guerra Giudaicavenne pubblicata sotto l’alto patrocinio di Tito e ammessa nella Biblioteca Palatina, Giuseppe ebbe persino una statua commemorativa a Roma. Questa radicale adesione alla politica e alla cultura greco-romana da parte di Giuseppe ha un peso non trascurabile anche per l’argomento che andremo a trattare, come vedremo. L’altra imponente opera di Giuseppe Flavio è costituita dalle Antichità Giudaiche, `IoudaikÈj arciolog…aj, in latino Antiquitatis Iudaicae, una monumentale storia del popolo ebraico in venti libri, dalle origini fino all’inizio della guerra giudaica nel dodicesimo anno dell’impero di Nerone, il 66 d.C. Antichità Giudaiche venne pubblicata nel 93 dopo Cristo, diciotto anni dopoGuerra Giudaica, quando Giuseppe aveva cinquantasei anni (cfr. Ant., 20, 267). Giuseppe scrisse poi alcune opere minori tra cui si segnalano la sua autobiografia (Vita, scritta non prima del 97 dopo Cristo), dalla quale provengono le informazioni biografiche riguardanti Giuseppe Flavio, ed un breve trattato sull’antichità del popolo ebraico, noto con il titolo latino Contra Apionem. E’ probabile che Giuseppe abbia composto originariamente le versioni preliminari delle Antichità e della Guerra nella sua lingua madre, in ebraico oppure in aramaico, anche se il testo di queste opere ci è pervenuto, nelle versioni più antiche, in greco. Da alcuni passi di Giuseppe si può arguire che molto probabilmente le opere che egli compose vennero pubblicate in greco, inoltre il testo greco fu conosciuto e curato dallo stesso Giuseppe Flavio. Nella prefazione a Guerra Giudaica Giuseppe scrive: “mi sono proposto […] di tradurre in lingua greca quei libri che avevo precedentemente composto nella lingua del nostro paese” (cfr. Guerra, Prefazione, 1). Verosimilmente Giuseppe compose le bozze di Guerra Giudaica nella sua lingua madre ma il libro venne definitivamente pubblicato in greco, coerentemente con il fatto che era principalmente rivolto a lettori greco-romani. Nel Contra Apionem scrive: “le Antichità contengono cinquemila anni di storia e sono state composte dai nostri libri sacri e da me tradotte in lingua greca” (cfr. Contra Apionem, 1, 1) e ancora, poco oltre, riferisce che alcune persone lo hanno assistito nel tradurre e completare il testo in greco (cfr. Contra Apionem, 1, 9). Pertanto il testo greco è stato composto direttamente da Giuseppe Flavio, assistito da persone che hanno collaborato strettamente con lui e sotto il suo controllo. Scrive inoltre Giuseppe: “i miei compatrioti riconoscono che nella nostra cultura giudaica io li supero di molto. Mi sono pure affaticato con coraggio nello studio del campo della prosa e poesia greca dopo avere appresa la grammatica greca, sebbene l’uso quotidiano della mia lingua nativa mi abbia impedito di raggiungere la precisione nella pronuncia” (cfr. Ant. 20:263). Nei secoli vennero approntate delle traduzioni in latino di Guerra e Antichità, che hanno un valore filologico assai minore rispetto al testo greco.
Giuseppe Flavio e la storicità di Gesù Cristo
Come storico e statista del I secolo, Giuseppe Flavio è dunque uno dei maggiori candidati per fornire notizie su Gesù, dal momento che scrisse opere a carattere storico riguardanti proprio il popolo ebraico. Nelle Antichità Giudaiche (vedi 18.3.3) si è conservato un accenno a Gesù Cristo e ai Cristiani che da molti è considerato una delle maggiori prove storiche dell’esistenza di Gesù Cristo. Tuttavia, come vedremo, il tono e lo stile con cui viene descritto Gesù in questo celebre passo delle Antichità Giudaichefanno sospettare molti studiosi che esso sia una interpolazione inserita posteriormente nel testo per creare artificiosamente una prova dell’esistenza di Gesù come personaggio storico. Tra gli esperti, alcuni considerano tutto il brano di Giuseppe una invenzione cristiana, altri sospettano che il passaggio sia stato ritoccato in alcuni punti, in particolare siano state inserite in esso alcune frasi in modo da renderlo benevolo nei confronti dei cristiani. Pochissimi studiosi sostengono ancora oggi che tutto il brano nella sua interezza è originale, così come ci è stato tramandato. Ma Giuseppe Flavio, sempre nelle Antichità Giudaiche, parla anche dell’assassinio del “fratello di Gesù detto il Cristo, il cui nome era Giacomo” (vedi Ant. 20.9.1), così abbiamo un secondo riferimento a Gesù Cristo, nella stessa opera. Giuseppe nelle Antichità Giudaiche parla anche di Giovanni Battista (Ant. 18.5.2), ma nel passo non compare alcun accenno a Gesù o alla cristianità. Pertanto Ant. 18.3.3 e Ant. 20.9.1 sono dunque gli unici due riferimenti a Gesù Cristo e ai cristiani riscontrabili nelle opere di Giuseppe Flavio (il passo Ant. 18.3.3, per la sua importanza, prende il nome di testimonium flavianum):
Gesù Cristo | Antichità Giudaiche, 18.3.3 |
(testimonium flavianum)Giacomo il Giusto + Gesù CristoAntichità Giudaiche, 20.9.1
Il testimonium flavianum
Prende il nome di testimonium flavianum un passaggio che si trova nel diciottesimo libro delle Antichità Giudaiche (vedi Ant. 18.3.3) nel quale Giuseppe Flavio descrive Gesù e i Cristiani con le seguenti parole:
Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, 18.3.3 – Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità, ed attirò a se molti Giudei e anche molti dei Greci. Egli era il Cristo. E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunciato i divini profeti queste e migliaia di altre meraviglie riguardo a lui. Ancor oggi non è venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati Cristiani. (Traduzione dal greco di A. Nicolotti, www.christianismus.it) |
Il passaggio in questione compare in questa forma in tutti i manoscritti oggi esistenti di Antichità Giudaiche a cominciare dal documento più antico in assoluto che lo attesta, databile all’XI secolo dopo Cristo, il Codice Ambrosiano gr. 370, conservato a Milano presso la Biblioteca Ambrosiana con la segnatura F 128 sup. Una lista accurata dei manoscritti più antichi delle Antichità Giudaiche e la loro collocazione si trova al seguente link: http://www.tertullian.org/rpearse/manuscripts/josephus_antiquities.htm
La pagina contiene anche informazioni sui manoscritti più antichi di tutte le opere di Giuseppe. Il testimonium flavianum è citato inoltre in questa forma da Eusebio di Cesarea (265-340 d.C. circa) nel IV secolo, nella Dimostrazione Evangelica 3.5, nella Storia Ecclesiastica 1.11 e nella Teofania. Eusebio è di fatto il primo autore che abbia mai citato iltestimonium flavianum in un suo scritto. Le bozze di Antichità Giudaiche furono probabilmente composte originariamente in ebraico o aramaico da Giuseppe, quindi il testo fu tradotto in greco dallo stesso Giuseppe Flavio, la lingua in cui fu pubblicato verso la fine del I secolo d.C. e nella quale si sono conservati oggi i manoscritti più antichi. Dal greco vennero poi ricavate anche numerose traduzioni in latino. Il testo greco (traslitterato) oggi conservato è il seguente:
Ginetai de kata touton ton chronon Iêsous sophos anêr, eige andra auton legein chrê: ên gar paradoxôn ergôn poiêtês, didaskalos anthrôpôn tôn hêdonêitalêthê dechomenôn, kai pollous men Ioudaious, pollous de kai tou Hellênikou epêgageto: ho Christos houtos ên. Kai auton endeixei tôn prôtôn andrônpar’ hêmin staurôi epitetimêkotos Pilatou ouk epausanto hoi to prôton agapêsantes: ephanê gar autois tritên echôn hêmeran palin zôn tôn theiônprophêtôn tauta te kai alla muria peri autou thaumasia eirêkotôn. Eis eti te nun tôn Christianôn apo toude ônomasmenon ouk epelipe to phulon. |
Testo in greco (font: greek.ttf, testo ed. B. Niese, Berlin, 1892, www.perseus.tufts.edu)
G…netai d kat¦ toàton tÕn crÒnon ‘Ihsoàj sofÕj ¢n»r, e‡ge ¥ndra aÙtÕn lšgein cr» Ãn g¦r paradÒxwn œrgwn poiht»j, did£skaloj |
¢nqrèpwn tîn ¹donÍ t¢lhqÁ decomšnwn, kaˆ polloÝj mn
‘Iouda…ouj, polloÝj d kaˆ toà `Ellhnikoà ™phg£geto· `O CristÕj oátoj Ãn. Kaˆ aÙtÕn ™nde…xei tîn prètwn ¢ndrîn par’ ¹m‹n staurù ™pitetimhkÒtoj Pil£tou oÙk ™paÚsanto oƒ tÕ prîton
¢gap»santej ™f£nh g¦r aÙto‹j tr…thn œcwn ¹mšran p£lin zîn tîn qe…wn profhtîn taàt£ te kaˆ ¥lla mur…a perˆ aÙtoà qaum£sia e„rhkÒtwn. E„j œti te nàn tîn Cristianîn ¢pÕ toàde çnomasmšnon oÙk ™pšlipe tÕ fàlon.
Traduzione letterale del Testimonium Flavianum dal greco (PDF 67 KB) |
Perchè il testimonium non può essere completamente autentico
E’ alquanto problematico sostenere che il testimonium flavianum sia completamente autentico così come si è conservato fino ad oggi. La descrizione dell’operato di Gesù Cristo è particolarmente benevola, nel passaggio Giuseppe dice che “egli era il Cristo” e “apparve loro nuovamente vivo dopo tre giorni”. Inoltre le opere compiute da Cristo erano state predette, secondo la versione integrale del testimonium, dai profeti. Si tratta di un punto di vista spiccatamente cristiano, che riconosce la messianicità di Gesù, la risurrezione dopo tre giorni e l’adempimento delle profezie veterotestamentarie. Ma Giuseppe Flavio aveva almeno due validi motivi per essere anticristiano e non riconoscere certo in Gesù Cristo il Messia atteso dai profeti dell’Antico Testamento: innanzitutto egli era ebreo, discendeva da una famiglia sacerdotale e apparteneva alla setta dei Farisei, come egli stesso scrive nelle sue opere (cfr. Vita, 2); inoltre divenne un collaborazionista dei Romani che perseguitarono i cristiani in vari momenti, fino al tempo di Costantino nel IV secolo dopo Cristo. E’ quindi altamente improbabile che Giuseppe Flavio, come ebreo e storico filoromano, abbia scritto, riferendosi a Gesù: “Questi era il Cristo”. Il termineCristo deriva dal greco Christòs che significa “l’unto” e deriva a sua volta dall’ebraico Mascî’ah (Messia). Nel mondo ebraico l’unzione era la consacrazione, l’investitura tipica dei re e dei sacerdoti e rappresentava la discesa della potenza e della volontà divina su una persona. L’Antico Testamento profetizzava la venuta di un Messia, di un re che gli ebrei dei tempi di Gesù, e anche dei secoli successivi, aspettavano ardentemente come liberatore della terra di Israele, soprattutto da un punto di vista politico e militare, dal giogo straniero. Ma in Guerra Giudaica Giuseppe Flavio dichiara esplicitamente che nell’imperatore romano Vespasiano si erano adempiute le profezie messianiche, prendendo così le distanze sia dalle aspettative del mondo ebraico, sia da quelle cristiane. Parlando del popolo ebraico che si era ribellato ai Romani nel 66 d.C. egli scrive:
Guerra Giudaica, Libro VI, Cap. V, 312-313 – “Ma quello che maggiormente li incitò alla guerra fu un’ambigua profezia, ritrovata ugualmente nelle sacre scritture, secondo cui in quel tempo uno proveniente dal loro paese sarebbe diventato il dominatore del mondo. Questa essi la intesero come se alludesse a un loro connazionale, e molti sapienti si sbagliarono nella sua interpretazione, mentre la profezia in realtà si riferiva al dominio di Vespasiano, acclamato imperatore in Giudea.”
Dunque Giuseppe non poteva credere alla teoria del Messia ebraico e neppure a quella di un Gesù proclamato Messia (cioè Cristo) dai suoi seguaci cristiani, o almeno non poteva permettersi di metterlo per iscritto in una opera destinata ad un pubblico greco-romano. E’ vero che questo passo di Guerra Giudaica è stato composto diciotto anni prima del testimonium flavianum, tuttavia un radicale cambiamento del pensiero politico e religioso di Giuseppe appare inverosimile, tenuto conto che non vi è alcun altro indizio in Antichità Giudaiche che lasci supporre che Giuseppe potesse essere così filo cristiano da pensare che davvero Gesù fosse il Messia risorto dai morti dopo tre giorni dalla crocifissione, così come non vi è alcuna revisione critica del concetto chiaramente espresso in Guerra, 6, 312-313 sopra riportato. Anche se intimamente si fosse convertito al nascente movimento cristiano, ben difficilmente avrebbe potuto inserire nelle sue opere un passaggio spiccatamente filo cristiano, data l’opinione che il mondo intellettuale romano aveva dei cristiani. Si noti che il punto di vista di Giuseppe circa l’interpretazione delle profezie messianiche del popolo ebraico si riscontra persino nelle Historiae di Tacito, opera scritta tra il 100 e il 110 dopo Cristo, poco dopo le Antichità di Giuseppe Flavio. Nel Libro V, sez. 13, delle Historiae Tacito racconta della guerra giudaica del 66-74 e del fanatismo degli ebrei zeloti in quel periodo e scrive, forse basandosi su considerazioni riprese da Guerra Giudaica:
Tacito, Historiae, Libro V, 13 – “Alcuni videro un significato spaventoso in quegli eventi ma nella maggioranza vi era la convinzione che negli antichi libri dei loro sacerdoti fosse contenuta la profezia che l’oriente sarebbe diventato molto potente e dei condottieri provenienti dalla Giudea erano destinati a conquistare il mondo. Queste misteriose profezie erano relative a Vespasiano e Tito ma la gente comune, con la solita cecità dovuta all’ambizione, aveva interpretato questi grandi destini a loro stessi e neppure i disastri avevano il potere di portarli a credere alla realtà.”
Origene (185-250 d.C.), che scrive circa un secolo prima di Eusebio di Cesarea, afferma inoltre che Giuseppe Flavio “non credeva in Gesù come il Cristo”, si veda ad esempio ilCommentario a Matteo, 10.17 e il Contra Celsum, 1.47. Pertanto è impossibile che Origine fosse a conoscenza del testimonium flavianum esattamente così come lo conosciamo oggi, nel quale è scritto: “Egli era il Cristo“, oltre ad altre frasi spiccatamente filo cristiane. Quindi o il passo di Giuseppe Flavio ha ricevuto una o più modifiche (interpolazioni) oppure è stato ad un certo punto completamente inserito da mano (cristiana) ignota nella Antichità Giudaiche. Gli esperti che lo considerano parzialmente autentico usualmente considerano corrotte (almeno) le tre frasi che sopra abbiamo evidenziato, ovvero:
frase 1: “se pure bisogna chiamarlo uomo”, discorso che insinua nella mente del lettore l’idea che Gesù potesse essere considerato da qualcuno un essere divino, come predicato dai cristiani;
frase 2: “Egli era il Cristo”, affermazione che costituirebbe il riconoscimento diretto da parte di Giuseppe che Gesù era proprio il Messia, contro quanto sostenuto da Origene e contro le stesse affermazioni di Giuseppe Flavio che applica a Vespasiano le profezie messianiche;
frase 3: “Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunciato i divini profeti queste e migliaia di altre meraviglie riguardo a lui”, il riconoscimento della risurrezione e dell’adempimento in Gesù delle profezie messianiche dell’Antico Testamento, secondo quanto riportato nei Vangeli, impossibile per un ebreo e per un romano.
Queste tre frasi sono perfettamente parentetiche, possono essere omesse dal testimonium flavianum senza alterare il senso e la correttezza grammaticale del resto del brano.
Argomenti a sostegno della totale falsità del testimonium flavianum
Se il testimonium flavianum non può, razionalmente parlando, essere stato scritto esattamente nel modo in cui ci è pervenuto, sia per considerazioni interne al testo che per considerazioni esterne, è possibile concludere che sia completamente un falso storico e che Giuseppe Flavio non abbia mai inteso parlare di Gesù Cristo nelle Antichità Giudaiche. Esaminiamo quali possono essere gli elementi a sostegno di questa tesi e le eventuali critiche a queste argomentazioni.
Discontinuità logica nella narrazione
Il testimonium flavianum si integra male, da un punto di vista logico, nel contesto del Libro 18 delle Antichità Giudaiche. In questo Libro Giuseppe sta parlando dei movimenti rivoluzionari e nazionalistici ebraici e quindi riporta alcuni fatti sanguinosi accaduti al tempo del governatore Pilato, che fu in carica dal 26 al 36 d.C. Prima è narrato l’episodio della introduzione delle immagini dell’Imperatore di Roma all’interno di Gerusalemme, voluta da Pilato e considerata un fatto sacrilego dagli ebrei che non ammettevano alcuna immagine all’interno della città santa: la determinazione dei Giudei convinse in seguito Pilato a desistere dal suo proposito e a ritirare le immagini (cfr. Ant. 18:55-59). Dopo questo episodio è inserito il racconto dell’utilizzo di parte del sacro tesoro del Tempio per finanziare la costruzione di un acquedotto, altro fatto sacrilego per la religione ebraica che provocò un tumulto nel quale morirono molti giudei (cfr. Ant. 18:60-62). Infine a questi due episodi segue immediatamente il testimonium flavianum. Nel cominciare l’episodio successivo al testimonium flavianum, Giuseppe inizia con la frase: “In quel periodo un’altro fatto doloroso provocò una rivolta dei Giudei (…)” (cfr. Ant. 18:65). L’accenno al verificarsi di “un’altro fatto doloroso” sembra collegarsi direttamente all’episodio sanguinoso dell’acquedotto raccontato immediatamente prima del testimonium, nel quale perirono migliaia di giudei, e non al racconto di Gesù, presentato in termini meno cruenti e più idilliaci e non connesso con alcuna rivolta o spargimento di sangue. E’ poi interessante notare che nella sezione relativa a Pilato nella Guerra Giudaica Giuseppe Flavio riporta esattamente gli stessi due incidenti con cui comincia il Capitolo 3 del libro 18 delle Antichità Giudaiche, contenente il testimonium flavianum, incidenti diplomatici che causarono altrettante sommosse in Giudea durante il periodo di Pilato; ma nellaGuerra Giudaica (cfr. 2. o 2.169-177 secondo un’altra numerazione dell’opera) non vi è alcun riferimento a Gesù e ai cristiani, è del tutto assente un brano riguardante Gesù analogo al testimonium flavianum. In generale, poi, non vi è alcun accenno a Gesù o ai cristiani in tutta la Guerra Giudaica e nelle altre opere minori di Giuseppe.
Contro questa tesi, a prima vista convincente, si può osservare che il testimonium flavianum, sebbene presenti sostanzialmente in termini positivi Gesù e non sia esclusivamente il racconto di un fatto negativo come i due precedenti, resta comunque la narrazione di un fatto cruento e di uno spargimento di sangue: in esso, infatti, è bene specificato che Pilato punì con la crocifissione Gesù in seguito alla denunzia alle autorità romane da parte di alcuni Giudei (gli “uomini notabili”). Pertanto il successivo incipit relativo ad“un’altro fatto doloroso” in linea di principio potrebbe essere consequenziale al testimonium flavianum, che narra della messa a morte di Gesù, considerato un uomo saggio (sofÕj ¢n»r): la perdita di un personaggio comunque valido e capace è pur sempre un fatto doloroso, così come la crocifissione era una pena terribile e spaventosa, la più infamante che potesse essere inflitta a un colpevole. Un’altro aspetto che colpisce esaminando attentamente il Capitolo 3 del Libro 18 delle Antichità è dato dal fatto che sebbene l’incipitdel brano successivo al testimonium cominci con le parole: “In quel periodo un’altro fatto doloroso provocò una rivolta dei Giudei (…)“, in realtà nell’episodio immediatamente successivo e in quello dopo ancora Giuseppe non riferisce di rivolte o spargimenti di sangue nel senso che la traduzione italiana vorrebbe dare. Innanzitutto i due episodi successivi al testimonium non si svolgono in Palestina e non riguardano neppure l’operato di Pilato ma accadono a Roma. Il primo è il racconto di uno scandalo, provocato da Decio Mundo e dai sacerdoti del tempio di Iside, perpetrato ai danni di Paolina, una giovane donna romana: esso si conclude con la distruzione del tempio di Iside e la crocifissione dei sacerdoti del tempio, ordinata dall’Imperatore Tiberio (cfr. Ant. 18:65-80). Si tratta di una vicenda che, oltre a non vedere coinvolti dei giudei, in nessun modo è legata alle vicende giudaiche in Palestina e difatti rimane misterioso perchè Giuseppe la menzioni in Antichità Giudaiche, forse egli ha inteso semplicemente riportare uno scandalo legato ad un culto religioso, quello di Iside, in quanto subito dopo parla di uno scandalo molto simile legato alla religione ebraica, più direttamente in sintonia con il contesto della narrazione. Lo storico romano Tacito, in Annales 2.85.4, scrive che il senato di Roma decise la soppressione dei culti egiziani e giudaici, oltre all’invio forzato di quattromila liberti seguaci di quei culti, al tempo di Tiberio, quando morì Giulio Cesare Germanico (19 d.C.), un episodio straordinariamente simile a quel provvedimento di espulsione raccontato da Giuseppe Flavio subito dopo la vicenda di Decio Mundo e Paolina: l’elemento del culto egiziano di cui parla Tacito potrebbe essere il motivo per cui Giuseppe ha menzionato l’episodio di Paolina assieme al provvedimento di espulsione, ma è evidente che Tacito e Giuseppe Flavio sono in disaccordo in quanto Giuseppe sembra collocare comunque al tempo della prefettura di Pilato in Giudea (26-36 d.C.) il decreto di espulsione ai danni dei Giudei, ben dopo, dunque, la data proposta da Tacito (19 d.C.). L’episodio successivo alla vicenda di Decio Mundo e Paolina, dunque, si svolge ancora una volta a Roma e non in Giudea ed è il racconto di un’altro fatto scandaloso: quattro ebrei raggirano Fulvia, una ricca donna romana, promettendole di inviare offerte di denaro ed oggetti preziosi al tempio di Gerusalemme, ma in realtà si tratta di una colossale truffa. A causa di questo raggiro Giuseppe racconta che l’Imperatore Tiberio ordinò l’espulsione degli ebrei da Roma, che vennero confinati in Sardegna (cfr. Ant. 18:81-84; come dicevamo l’episodio potrebbe essere lo stesso menzionato da Tacito in Annales, 2.85.4). Poiché la frase completa di Giuseppe è: “In quel periodo un’altro fatto doloroso provocò una rivolta dei Giudei e contemporaneamente avvennero azioni di natura scandalosa in connessione al tempio di Iside in Roma. Prima farò parola dell’eccesso dei seguaci di Iside, tornerò poi in seguito alle cose avvenute ai Giudei”, l’incipit della frase sembra più direttamente collegato al secondo esempio, quello relativo allo scandalo delle offerte per il tempio di Gerusalemme. Ma Giuseppe anche nel secondo episodio non parla di rivolte o di fatti di sangue accaduti tra la popolazione, come nel caso dei racconti relativi a Pilato, che avvengono peraltro in Giudea e non certo a Roma. La traduzione italiana dell’incipit del passo successivo al testimonium che abbiamo riportato precedentemente (“un’altro fatto doloroso”) e che generalmente viene utilizzata per contestare il testimonium, non risulta poi neppure corretta. Il testo greco di Giuseppe Flavio recita infatti kaˆ ØpÕ toÝj aÙtoÝj crÒnouj ›teron ti deinÕn ™qorÚbei toÝj ‘Iouda…ouj (cfr. Ant., 18.3.4 o 18.65 secondo un’altra numerazione dei paragrafi) ma ti deinÕn dovrebbe essere tradotto con un fatto terribile, spaventoso, orribile e non certo con un fatto doloroso. Il vocabolario del greco antico di R. Romizi, Zanichelli, Bologna, seconda edizione, 2005, non riporta neppure come possibile opzione la traduzione dell’aggettivo deinÕj con “doloroso”. Giuseppe utilizza deinÒj, che viene usualmente tradotto con terribile, ad esempio inAnt. 18:277, 18:310, 19:78, per limitare le citazioni alle sezioni testualmente vicine al testimonium. Lo stesso vocabolario attesta che in greco è diffuso l’utilizzo del neutro sostantivato tÕ deinÒn, che va tradotto con cosa terribile, disgrazia. Se ti deinÕn significasse esattamente fatto doloroso, che suscita dolore o tristezza, allora risulterebbe forse più semplice ipotizzare che Giuseppe Flavio intendesse ricollegarsi all’incidente dell’acquedotto, nel quale morirono molti ebrei in seguito ad un ordine di Pilato, episodio raccontato dopo la truffa dei quattro ebrei romani: sarebbe infatti naturale e del tutto comprensibile che Giuseppe considerasse l’episodio dell’acquedotto come doloroso e triste, in quanto egli è pur sempre un ebreo che scrive della morte di suoi connazionali. La punizione inflitta da Pilato a quei Giudei, inoltre, era ingiusta in quanto le autorità avevano effettivamente violato le leggi del Tempio prelevando somme di denaro dal suo tesoro e la protesta dei Giudei aveva delle motivazioni religiose ben precise. Ma inAnt., 18:65 Giuseppe intende invece riferirsi piuttosto ad un fatto orribile, spaventoso e terribile più che “doloroso”, termine italiano che in greco potrebbe essere reso con l’aggettivo ÑdÚnhj. L’episodio immediatamente successivo al testimonium si conclude con la crocifissione dei sacerdoti del tempio di Iside, una punizione orribile e spaventosa, proprio come quella stessa punizione a cui venne condannato Gesù Cristo nel brano immediatamente precedente. Essa non è un fatto doloroso, che suscita tristezza, i sacerdoti di Iside sono stati puniti giustamente per aver commesso un grave reato, tuttavia la punizione è certo orribile e infamante, sebbene sia stata inflitta loro giustamente (cfr. Ant., 18:79-80). Il verbo qorubšw utilizzato in Ant. 18:65 non significa poi provocare una rivolta ma far rumore o clamore, turbare, sconvolgere, sconcertare: infatti nei due episodi successivi al testimonium flavianum e nel testimonium stesso non si descrive nessuna rivolta o protesta veemente dei Giudei, al contrario dell’episodio raccontato in Ant. 18:60-62 in cui i Giudei “si raccolsero insieme in molte migliaia” contro Pilato, provocando una “sommossa”. Nei primi due episodi riguardanti Pilato inseriti prima del testimonium è il governatore romano a turbare l’opinione pubblica ebraica o una parte di essa, a causa del suo discutibile operato. In entrambi i casi i Giudei si raccolgono in massa per protestare contro il governatore che, nel secondo caso, reagisce con violenza. Nel caso del testimonium e dei due episodi successivi, in particolare l’ultimo (il racconto della distruzione del tempio di Iside esula un po’ dal contesto ed è fuorviante) sono invece quattro mascalzoni ebrei a scandalizzare l’opinione pubblica romana e probabilmente anche l’opinione pubblica ebraica che risiedeva in Giudea, oltre che tutti gli ebrei romani. Questo fatto, secondo Giuseppe, provocherà il confino degli ebrei romani in Sardegna. Ma sia nel caso di Gesù, nel cosiddetto testimonium flavianum, che nel caso dell’espulsione in Sardegna dei Giudei romani Giuseppe non racconta di alcuna rivolta o sedizione, i Giudei accettano passivamente lo svolgersi degli eventi pur rimanendo turbati e scandalizzati da quelle vicende.
Per quanto concerne poi la mancanza di qualunque riferimento a Gesù nella Guerra Giudaica anche laddove sarebbe logico attenderlo, ovvero nella sezione riguardante il governo di Pilato in Giudea, osserviamo che Guerra Giudaica non contiene alcuna descrizione di Giovanni Battista o di Giacomo (il fratello di Gesù Cristo, cfr. Ant. 20.9.1) personaggi che sono invece citati nelle Antichità Giudaiche e offrono maggiori garanzie di autenticità rispetto al testimonium flavianum. Se il testimonium flavianum è stato sospettato di essere un falso, i passaggi relativi al Battista e a Giacomo vengono ritenuti autentici dalla quasi totalità degli esperti. Dobbiamo considerare che Antichità Giudaiche è un’opera posteriore a Guerra Giudaica di circa una ventina di anni, pertanto è possibile che alcuni temi relativi al cristianesimo siano diventati storicamente importanti e conosciuti dal grande pubblico solo dopo la stesura di Guerra Giudaica, un’opera che ha comunque come obiettivo principale il racconto militare della guerra tra i Giudei e i Romani del 66-74 e in misura molto minore la descrizione delle varie sfaccettature del mondo ebraico quando queste non sono connesse direttamente allo svolgimento della guerra. Più in generale vi sono personaggi che compaiono nella Guerra Giudaica che non sono riportati nelle Antichità Giudaiche e viceversa.
Esistenza di manoscritti delle Antichità privi del testimonium flavianum
Alcuni sostengono l’esistenza di manoscritti delle Antichità Giudaiche che non contengono il testimonium flavianum. Questa affermazione è falsa, dall’XI secolo in poi tutti i manoscritti greci e latini noti contengono il testimonium flavianum. Secondo alcuni il teologo olandese Vossius era in possesso di un antico manoscritto delle Antichità Giudaicheche non conteneva il testimonium. Questa tesi è stata sostenuta in particolare da Gordon L. Rylands in un suo libro del 1929, vedi: L. Gordon Rylands, Did Jesus Ever Live?, Watts & Co., London, 1929, pag. 20. Sfortunatamente questi autori omettono non solo di indicare il manoscritto – o i manoscritti – in questione, ma anche il semplice riferimento a un qualche scritto di Vossius nel quale egli sostenga di possedere una copia delle Antichità senza il brano incriminato. Non vi è neppure accordo su quale Vossius si debba considerare: alcuni parlano di Gerardus Johann Vossius (1577-1649) ma altri menzionano suo figlio Isaac Vossius (1618-1689). Alcuni codici di Giuseppe Flavio noti come “Vossianus” sono conservati a Leiden (Olanda) presso la Bibliottheek der Rijksuniversiteit ma contengono tutti il testimonium, semmai esiste un codice, il Vossianus gr. F 72, del XV secolo, contenente Guerra Giudaica con l’inserzione del testimonium flavianum (chiara interpolazione).
Verso l’XI secolo apparve una storia del popolo ebraico (Historia Iudaica) scritta da tale Yosef Ben Gorion, il cui pseudonimo è Yosippon. Giuseppe Flavio nella Guerra Giudaicamenziona un personaggio noto come Giuseppe figlio di Gorion, vissuto al tempo della guerra giudaica, capo della città di Gerusalemme subito dopo l’inizio della rivolta nel 66 d.C., quando i Romani vennero scacciati (cfr. Guerra, 2, 563). Quest’opera, scritta in ebraico, omette effettivamente il testimonium flavianum, ma si tratta di una contraffazione, il suo testo dipende fortemente da una combinazione delle Antichità Giudaiche con Guerra Giudaica e il fatto che il libro venne subito accolto entusiasticamente dagli ebrei in epoca medievale e non era noto nei secoli precedenti è segno che esso è probabilmente frutto di una interpolazione anticristiana.
Impossibilità del riferimento ai cristiani
La frase conclusiva del testimonium flavianum “ancor oggi non è venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati cristiani” richiederebbe necessariamente la presenza della precedente frase “Egli era il Cristo”, chiaramente interpolata. Senza questa frase preliminare non è possibile stabilire che i cristiani hanno preso il loro nome da Gesù e resterebbero un gruppo non identificato. Pertanto viene a cadere anche la frase sui cristiani e l’intero testimonium risulta talmente interpolato da non poterlo considerare attendibile in alcun punto.
John P. Meier ha dedicato alla discussione del Testimonium flavianum un intero capitolo della sua monumentale opera “A Marginal Jew: Rethinking the Historical Jesus”, New York, Doubleday, 1991, tradotta in italiano col titolo: “Un ebreo marginale – Ripensare il Gesù storico”, Queriniana, 2001. Su questo punto egli scrive:
“Come dimostra André Pelletier, uno studio dello stile di Flavio Giuseppe e di altri scrittori del suo tempo mostra che la presenza di «Cristo» non è richiesta dall’affermazione finale che i cristiani «da lui prendono il nome». Talvolta sia Flavio Giuseppe sia altri scrittori grecoromani (per. es., Dione Cassio) considerano una pedanteria menzionare esplicitamente la persona dalla quale altre persone o un luogo prendono il nome; sarebbe stato considerato un insulto alla conoscenza e alla cultura del lettore esplicitare una connessione che è piuttosto data per scontata. Cfr. A. Pelletier, Ce que Josèphe a dit (Ant. XVIII 63-64), in REJ 124 (1965), pp. 9-21.” (da: John P. Meier, Un ebreo marginale, Ripensare il Gesù storico, Queriniana, trad. it. di L. de Santis, Brescia, 2001, Vol. I, pp. 67-68)
In altre parole se il gruppo dei cristiani era storicamente noto o Giuseppe riteneva che lo fosse nel momento in cui scriveva le Antichità, verso la fine del I secolo, egli non avrebbe sentito il bisogno di spiegare l’origine di tale appellativo, non era nella prassi letteraria dell’epoca spiegare collegamenti che si ritenevano noti e conosciuti da tutti. Una prova di quanto sostenuto da John P. Meier compare proprio in Giuseppe Flavio, in Antichità Giudaiche 17.5.1 in cui l’autore spiega il nome che venne dato al porto di Sebastos con le parole: “Erode, avendolo costruito con enormi spese, lo chiamò Sebastos in onore di Cesare. Giuseppe Flavio omette la spiegazione tecnica che il nome onorifico di Cesare in latino è Augusto che in greco viene tradotto proprio come Sebastos, da cui deriva il nome del porto: assume infatti che il lettore sia consapevole del titolo che aveva Cesare (Augusto). Allo stesso modo anche senza la presenza della frase chiaramente interpolata “Egli era il Cristo”, alla fine del passo è possibile che l’autore abbia dato per scontato che i lettori cui si rivolgeva sapessero bene che Gesù era soprannominato Cristo, e che da questi deriva il nome dei cristiani. Dieci quindici anni dopo la stesura delle Antichità Giudaiche Plinio il Giovane utilizza disinvoltamente sia il termine Cristo che il termine cristiani in una lettera inviata all’Imperatore Traiano dalla Palestina (cfr. Epistola X, 96, 1-9) [1]. Alcuni poi aggirerebbero questo problema sostituendo la frase chiaramente interpolata e inammissibile “Egli era il Cristo” con un ipotetico “Si credeva che fosse il Cristo” oppure “Egli era il cosiddetto Cristo”. Il falsario, secondo questa ricostruzione, si sarebbe semplicemente limitato a togliere ogni espressione di dubbio nella frase di Giuseppe. Questa è una ipotesi sempre possibile, sebbene anche questa interpretazione non sia anch’essa esente da problemi e non possa essere dimostrata.
Citazioni del testimonium flavianum
Nessuna menzione all’esistenza di Gesù o dei cristiani e delle vicende ad essi collegate appare nelle opere di Giusto di Tiberiade e Filone di Alessandria, risulterebbe quindi sospetto che Giuseppe abbia parlato di Gesù mentre due intellettuali ebrei dello stesso periodo non lo hanno fatto [2]. Inoltre, il testimonium flavianum non viene citato in alcuna forma nelle opere che ci sono rimaste dei primi padri della Chiesa, non vi è alcun utilizzo del passo in Giustino Martire, Teofilo di Antiochia, Melito di Sardi, Ireneo di Lione, Clemente di Alessandria, Tertulliano, Ippolito, Origene, Metodio o Lattanzio. Il primo autore a citare il testimonium flavianum fu Eusebio di Cesarea (265-340 d.C. circa). Eppure ognuno di questi autori conosceva bene le opere di Giuseppe Flavio e aveva una certa dimestichezza con esse. Ora, se il testimonium che ci è pervenuto è autentico, risulta oscuro il motivo per cui non sia mai stato citato dagli apologisti cristiani fin dal II secolo. La mancata citazione nei padri della Chiesa prima di Eusebio, in particolare in Origene, sembra dimostrare che verso il IV secolo d.C. o poco prima la forma del testimonium è cambiata, ammesso che esso sia mai esistito nelle prime versioni delle Antichità Giudaiche.
Una spiegazione del silenzio dei padri della Chiesa si può ottenere supponendo che le tre frasi che abbiamo segnalato come chiaramente interpolate, ovvero: “se pure bisogna chiamarlo uomo“, “questi era il Cristo” ed “egli apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, ecc…” non erano presenti nel testo originario. Questo potrebbe spiegare perchè questo brano non veniva citato dai primi cristiani. Depurato dalle interpolazioni il testimonium flavianum suonava più o meno:
“Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità, ed attirò a se molti Giudei e anche molti dei Greci. E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Ancor oggi non è venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati Cristiani.”
In questa forma, il testimonium presenta Gesù come un maestro, un uomo di notevoli capacità, in grado di compiere opere fuori del comune, che insegnava la verità ai Giudei e ai Greci. Si riferisce poi che da Gesù si è originata la setta dei cristiani, ma non vi è alcun accenno alla risurrezione il terzo giorno oppure alla presentazione di Gesù come Cristo (il Messia dell’Antico Testamento). Quindi Giuseppe, se questa ricostruzione è valida, riconosceva certe qualità a Gesù, che venne messo a morte e condannato da Pilato su richiesta di persone influenti presso i Giudei, probabilmente i sinedriti. John P. Meier sostiene:
“Una possibile spiegazione di questo silenzio concorderebbe con la mia ricostruzione del Testimonium e con il mio isolamento delle interpolazioni cristiane. Se fino a poco prima del tempo di Eusebio il Testimonium era privo delle tre interpolazioni cristiane che ho messo tra parentesi, i padri della chiesa non sarebbero stati eccessivamente interessati a citarlo; infatti, non sostiene minimamente il contenuto principale della fede cristiana in Gesù come Figlio di Dio che è risorto da morte. Questo spiegherebbe perchè Origene, nel III sec., affermava che Giuseppe non credeva che Gesù fosse il Messia (Commento al vangelo di Matteo 10,17; Contra Celsum 1,47). Il testo di Origene del Testimonium era privo delle interpolazioni e, senza di esse, il Testimonium attestava semplicemente, agli occhi dei cristiani, l’incredulità di Flavio Giuseppe; non era dunque un utile strumento apologetico per rivolgersi ai pagani o un utile strumento polemico nelle controversie cristologiche tra cristiani.” (da: John P. Meier, Un ebreo marginale, Ripensare il Gesù storico, Queriniana, trad. it. di L. de Santis, Brescia, 2001, Vol. I, pag. 71, nota 38)
Così vi sono motivazioni che possono aver indotto i primi Padri della Chiesa a citare da un testimonium ricostruito ad arte, più confacente ai loro interessi. Nel II e nel III secolo nelle controversie tra pagani e cristiani la storicità di Gesù non era mai messa in discussione, ma si dibatteva piuttosto sulla natura e sulle proprietà di Gesù. Un testimonium flavianum che parlasse solo di Gesù come personaggio storico non sarebbe stato utile in quel genere di controversie. Per questo motivo Origene osservava che Giuseppe Flavio non credeva che Gesù fosse il Cristo e nessun padre della Chiesa aveva necessità di citarlo.
In questo genere di ragionamento, volto a spiegare perchè l’accenno storico a Gesù nelle Antichità, pur essendo presente, non veniva utilizzato, dobbiamo tuttavia considerare che Origene nel Contra Celsum cita un passo delle Antichità Giudaiche in modo da certificare l’esistenza storica di Giovanni Battista, sebbene non vi siano motivi per cui a quei tempi la storicità di Giovanni Battista, al pari di quella di Gesù, dovesse essere messa in discussione. Se Origene trovava utile citare Giuseppe in modo da stabilire la storicità di Giovanni, perchè il medesimo autore non sarebbe stato desideroso di citare Giuseppe Flavio in modo da confermare anche la storicità di Gesù? Origene, poi, cita Giuseppe Flavio in modo da stabilire l’esistenza storica di Giovanni Battista nonostante Celso accetti la storicità di questo personaggio e non la metta in discussione (Contra Celsum, 1.47). Celso, nella sua controversia contro i cristiani, ammetteva che Gesù facesse opere prodigiose, i cosiddetti miracoli, ma attribuiva questi alla stregoneria e non all’intervento di Dio come se Gesù fosse un mago qualunque. E’ interessante notare che anche Eusebio di Cesarea cita Giuseppe Flavio nella Dimostrazione Evangelica per precisare che Gesù compiva vere opere miracolose, non per ribadire semplicemente la storicità di Gesù, che era data per scontata in quel periodo [3].
Stile letterario del testimonium flavianum
La questione dello stile letterario del testimonium flavianum è un argomento piuttosto forte a sfavore della autenticità del brano di Giuseppe. Osserviamo preliminarmente che iltestimonium è insolitamente corto per lo stile narrativo di Giuseppe Flavio, in genere più dettagliato e particolareggiato nell’esporre i fatti: analoghi passaggi riguardanti Giovanni Battista (Ant. 18.5.2) o Giacomo (Ant. 20.9.1) sono raccontati con maggiori particolari. Si può pensare quindi che il testimonium sia stato aggiunto nella sua interezza da un falsario quasi imbarazzato e preoccupato di non scrivere troppo per non farsi riconoscere. Ma, al contrario, si potrebbe anche sostenere da questo dato che un falsario cristiano non avrebbe certo sminuito l’importanza di Gesù, dovendo costruire dal nulla un intero brano avrebbe certamente abbondato di più nei particolari dal momento che ne aveva l’opportunità. Inoltre avrebbe probabilmente inserito il falso racconto di Gesù subito dopo quello di Giovanni Battista, dove è più logico attenderselo da un punto di vista cristiano.
Steve Mason in Josephus and the New Testament, Peabody, Hendrikson Publisher, 1992, osserva che in alcuni punti il testimonium non è congruente con lo stile letterario di Giuseppe Flavio. Nel testimonium vengono utilizzate alcune parole in un modo che non è caratteristico di Giuseppe. Per esempio, la parola che viene tradotta con ‘autore’ nella frase ‘era infatti autore di opere straordinarie’ nel testo greco è poiht»j, termine da cui deriva in italiano la parola ‘poeta’. Etimologicamente ‘poeta’ significa infatti ‘creatore’, dal verbo greco poišw (fare, costruire, creare), utilizzato frequentemente anche nel NT greco, per cui abbiamo tradotto con ‘autore’ o ‘creatore’ di opere straordinarie questo punto del testimonium. Ma ai tempi di Giuseppe Flavio la parola poiht»j aveva il significato odierno di ‘poeta’ ed era usata piuttosto per riferirsi ai poeti in senso letterario: così infatti in altri punti la usa Giuseppe (nove volte) per parlare di poeti greci come Omero. Il vocabolario del greco antico di R. Romizi (seconda edizione del 2005) attribuisce essenzialmente a poiht»j il doppio significato di autore, creatore, costruttore (anche artigiano) e di poeta, inteso come autore di opere letterarie. Ma, come osservato da S. Mason, l’utilizzo di poiht»j nel senso di autore di un’azione piuttosto che di poeta è certamente infrequente nella letteratura greca del I secolo dopo Cristo.
S. Mason – come altri prima di lui – osserva anche che l’utilizzo del termine tribù nella frase conclusiva del testimonium: ‘la tribù (gr. tÕ fàlon nel testo di Giuseppe) di quelli che da costui sono chiamati cristiani’ non è coerente con lo stile di Giuseppe Flavio. Giuseppe infatti usa la parola tribù (gr. ful») altre volte nelle sue opere ma usualmente identifica un popolo, una razza o una nazionalità diversa da quella ebraica: i Giudei per esempio sono una tribù (Guerra Giudaica, 3.354; 7.327) come i Tauri (Guerra Giudaica, 2.366) e i Parti (Guerra Giudaica, 2.379). E’ molto strano che Giuseppe parli dei cristiani come un gruppo razziale ben distinto dagli ebrei, utilizzando il termine greco ful», anche in considerazione del fatto che ha appena detto che Gesù era un ebreo condannato da Pilato su denuncia dei capi dei Giudei. S. Mason fa poi notare che sono invece alcuni autori cristiani di un periodo più recente rispetto a Giuseppe a parlare dei cristiani come di una “razza”. Il primo è infatti Eusebio di Cesarea (Storia Ecclesiastica, 3.33.2-3) verso il IV secolo d.C. il quale, nel citare Tertulliano sulla lettera di Traiano a Plinio il Giovane, utilizza la costruzione to cristianon fulon: curiosamente nel testo della lettera di Traiano che si è conservato per altra via non compare affatto il termine fulon così come altre citazioni o addirittura altre edizioni della Storia Ecclesiastica che riportano questo passo omettono la parola fulon, probabilmente mai utilizzata da Tertulliano ma erroneamente introdotta da Eusebio. Giuseppe nel testimonium utilizza proprio la costruzione tÕ fàlon, senza “cristiani”. D’altra parte, contro questa argomentazione, si può anche osservare che nel testimonium Giuseppe afferma esplicitamente che Gesù attirò a sé non solo dei Giudei ma anche dei Greci: alcuni sostengono quindi che l’utilizzo del termine tribù sia ammissibile per far riferimento a un seguito misto, composto non solo da Giudei ma anche da pagani. Sebbene Gesù stesso avesse detto ai suoi discepoli: “non andate tra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele” (cfr. Mt. 10:5-6), concetto ribadito anche nella frase: “non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele” (cfr. Mt. 15:23), una delle caratteristiche del cristianesimo è che esso si rivolse, fin dai primi momenti, ai pagani e ai Giudei ellenizzati, si potrebbero citare qui numerosi passi, come Atti 11:20, 13:46-48, 14:1, 14:27, 18:4, 19:10, 21:17 per limitare i riferimenti agli Atti degli Apostoli. Lo stesso Gesù, nonostante il precetto riportato in Mt. 10:5-6 e ribadito in Mt. 15:23, attestato peraltro solo da questo Vangelo, intrattenne relazioni con personaggi che non erano Giudei, cfr. Mt. 8:5-13, Mt. 15:21, Gv. 4:39-40, Gv. 12:20. Pertanto è possibile che Giuseppe intendesse i cristiani come una razza internazionale, distinta da quella ebraica. Inoltre se da un lato è vero che nessun autore prima di Eusebio di Cesarea ha mai utilizzato la parola tribù in connessione con il termine cristiani, Giustino Martire (100-165 d.C. circa) nel trattato apologetico noto come Dialogo con Trifone, 119.4, utilizza una costruzione molto vicina quella di Giuseppe, che impiega il termine fàlon, sostenendo che i cristiani non sono una “razza barbara“. Lo storico romano Svetonio (70-126 d.C.), poi, in Vita Neronis XVI, 2, scrive che l’imperatore Nerone “sottopose a supplizi i Cristiani, una razza di uomini di una superstizione nuova e malefica“, “afflicti suppliciis Christiani genus hominum superstitionis novae ac maleficae” dove il latino genus può significare razza nel senso di nazionalità, così come semplicemente “sorta di uomini” (hominum genus) con connotazione spregiativa (in effetti è questo il tono della citazione di Svetonio). Svetonio e Giustino scrivono tra la fine del I e la metà del II secolo e utilizzano quindi la parola tribù applicandola ai cristiani, quasi per dare loro una identità diversa dal concetto di nazionalità ebraica. I cristiani non potevano essere considerati una setta giudaica, dall’inizio del II secolo e probabilmente anche da prima, ai tempi della predicazione di Pietro e Paolo, erano ormai diventati un gruppo che accoglieva al suo interno tutte le nazionalità, ognuno poteva convertirsi al cristianesimo ed essere equiparato agli altri cristiani che facevano parte dello stesso gruppo, senza distinzione di nazionalità. Anche Giuseppe potrebbe dunque aver parlato di loro utilizzando la parola ful».
Un contributo importante allo studio linguistico del testimonium flavianum è giunto poi da K. Olson, il quale ha fatto notare che esiste una certa affinità tra il vocabolario tipicamente utilizzato da Eusebio di Cesarea ed il testimonium flavianum (così in un articolo apparso in internet nel 2001). Poiché Eusebio è di fatto il primo a citare iltestimonium flavianum è facile pensare che lo abbia costruito ad arte o pesantemente interpolato per sostenere le proprie tesi. K. Olson ha fatto notare che nel suo scritto Contro la difesa di Ierocle [4] Eusebio di Cesarea afferma che se dovesse accettare come vere le imprese sovrannaturali compiute da tale Apollonio, allora dovrebbe considerarlo un mago o uno stregone piuttosto che un “uomo saggio” (vedi: Contro Ierocle, 5). Ora, nel testimonium Giuseppe chiama proprio Gesù “uomo saggio” (‘Ihsoàj sofÕj ¢n»r) con le stesse identiche parole che compaiono in Contro Ierocle. Nella costruzione paradÒxwn œrgwn poiht»j, che compare nel testimonium flavianum, l’aggettivo paradÒxwn appartiene proprio al tipico vocabolario di Eusebio. Il termine poiht»j invece, come abbiamo detto, non compare mai in Giuseppe Flavio nel senso di “autore” di opere o fatti, ma sempre nel senso di “poeta” e la sola volta che Giuseppe combina par£doxoj con il verbo poišw lo fa nel senso di “azioni contrarie al costume” (cfr. Antichità Giudaiche, 12.87, paradÒxwn toutopoiîn) piuttosto che nel senso di “autore di miracoli o opere straordinarie o paradossali”. La combinazione di par£doxoj + poišw proprio nel senso di “autore di opere straordinarie” è invece relativamente comune negli scritti di Eusebio di Cesarea, egli sembra riservare le tre parole par£doxoj, poišw, ed œrgon utilizzate assieme, per descrivere Gesù nella Dimostrazione Evangelica, 114-115, 123, 125 oltre che nella Storia Ecclesiastica, 1.2.23. K. Olson, sulla base di alcune considerazioni stilistiche e del fatto che iltestimonium flavianum non è mai citato prima di Eusebio, arriva a proporre la falsificazione del passo delle Antichità o la sua completa invenzione da parte di Eusebio di Cesarea, nel IV secolo dopo Cristo. Questa tesi, del resto, era già stata sostenuta in passato da altri studiosi, vedi ad esempio S. Zeitlin, The Crist Passage in Josephus, Jewish Quarterly Review, New Series, Volume XVIII, 1928, pp. 231-255.
Un aspetto stilistico interessante è contenuto anche nel riferimento agli “uomini notabili fra noi”: tîn prètwn ¢ndrîn par’ ¹m‹n. Giuseppe, in altri punti delle sue opere, fa riferimento agli “uomini notabili”, ma si riferisce agli uomini notabili “di Gerusalemme” o “della città”, utilizzando sempre altri modi di dire al posto della prima persona plurale “noi”. Nella sua autobiografia (la Vita) Giuseppe Flavio fa riferimento a “gli uomini notabili di Gerusalemme”, agli “uomini notabili della città”, agli “uomini notabili appartenenti alla città” e agli “uomini notabili di Gerusalemme”. In ogni caso egli identifica sempre gli uomini notabili come appartenenti a Gerusalemme e non li considera mai uomini notabili per se stesso. Infatti Giuseppe Flavio nelle sue opere sembra sempre parlare non come un ebreo, ma come un romano che scrive degli ebrei in terza persona, quasi come fosse un osservatore neutrale. Questo modo narrativo non vale per tutta la sua opera, ma in gran parte di essa viene applicato. Curiosamente nel testimonium flavianumGiuseppe inverte il suo stile usuale e si identifica con i suoi connazionali parlando degli uomini notabili “tra noi“, tra i Giudei, alla cui nazione Giuseppe apparteneva di nascita. Questo genere di argomentazione, sebbene interessante, va comunque utilizzato con molta cautela. E’ vero che Giuseppe in molti punti sembra parlare degli ebrei quasi come se egli non lo fosse, più da storico romano che ebreo, ma questa regola non è sempre rispettata. Per esempio solo esaminando il passaggio delle Antichità 20.9.1, che interessa da vicino il testimonium flavianum e non è mai stato messo in discussione nella sostanza, come vedremo, Giuseppe scrive: “… un fatto che non accadde mai ad alcuno dei nostri sommi sacerdoti“, identificandosi pienamente con il mondo ebraico e parlando chiaramente dei “nostri sommi sacerdoti” con la prima persona plurale.
Considerando poi il riferimento a Gesù come “uomo saggio” (sofÕj ¢n»r, in greco) Giuseppe Flavio utilizza in altri punti questa costruzione, ma riserva un simile appellativo per persone del valore del re Salomone (Antichità Giudaiche 8.53) e del profeta Daniele (Antichità Giudaiche 10:237). Quando Giuseppe utilizza questo appellativo è sempre per elogiare un personaggio. E’ quindi certamente discutibile che Giuseppe abbia usato un così alto appellativo come “uomo saggio” per un personaggio al quale dedica poi così poche righe, inviso ai romani e agli ebrei e condannato a morte da Pilato. Per quanta stima potesse eventualmente avere Giuseppe Flavio di Gesù e dei cristiani, ben difficilmente egli avrebbe riservato a Gesù un appellativo utilizzato per Salomone e per il profeta Daniele, due figure altamente carismatiche per la cultura giudaica.
Pensiero politico di Giuseppe Flavio
Per chi ha anche solo un poco di dimestichezza con le opere di Giuseppe Flavio è facile intuire che l’intero tono del testimonium non sembra congruente col pensiero politico e storico di Giuseppe Flavio. Nel caso di ogni altro sedicente Messia o leader popolare giustiziato dai Romani, sappiamo che Giuseppe non ha altro da dire a commento dell’accaduto se non qualcosa di negativo. Certamente egli condanna senza riserva il movimento popolare degli agitatori e dei ribelli che infestavano la Palestina nel I secolo d.C., essi sono considerati il male del secolo e la rovina del popolo ebraico. Il movimento dei ribelli porta infatti alla distruzione del Tempio, della città stessa, dello stato ebraico. Ci si attenderebbe quindi una netta condanna anche del movimento dei cristiani, un movimento essenzialmente messianico che aspettava ancora il ritorno di Gesù e una grande guerra escatologica finale, un gruppo quindi che non poteva non essere avversato da Giuseppe. Sia come ebreo che come scrittore filo romano Giuseppe poteva avere solo interesse a enfatizzare le caratteristiche negative dei cristiani. Del resto anche Svetonio e Tacito descrivono in termini profondamente negativi i cristiani. Ricordiamo che verso il 110 d.C., una decina di anni dopo la stesura delle Antichità Giudaiche, lo storico romano Tacito scriveva negli Annales:
Tacito, Annales, Libro 15, 44 – “Cristo fu il fondatore di questa setta, messo a supplizio dal procuratore Ponzio Pilato durante il regno di Tiberio. Questa rovinosa superstizione fu per allora contenuta, ma poi nuovamente dilagò, non solo per tutta la Giudea, terra di origine di questo flagello, ma anche in Roma, dove tutti gli orrori e le brutture confluiscono da ogni parte del mondo e vi mettono radici.”
La setta dei cristiani è definita da Tacito come “rovinosa superstizione”, “flagello”, “orrore” e “bruttura”: questa era l’opinione del maggior storico romano circa dieci anni dopo la stesura delle Antichità Giudaiche. Plinio il Giovane, nello stesso periodo, in qualità di governatore della Bitinia, aveva ricevuto istruzioni da Roma per processare, costringere all’abiura o condannare a morte i cristiani in Giudea (cfr. Epistola X, 96, 1-9). E’ quindi probabile che Giuseppe Flavio sia come Fariseo che come filo romano avesse opinioni simili a quelle di Tacito e della classe dirigente romana relativamente ai cristiani, a meno che questi non siano diventati una seria minaccia per Roma solo dopo la stesura delleAntichità Giudaiche. Ma sappiamo dallo stesso Tacito (cfr. Annales, Libro 15, 44) che fin dal tempo di Nerone negli anni ’60 del I secolo i cristiani erano stati perseguitati, fatto confermato anche da Svetonio, che verso il 120 dopo Cristo scrive dei cristiani con questo tono: “[l’Imperatore Nerone] sottopose a supplizi i cristiani, una razza di uomini di una superstizione nuova e malefica” (Vita Neronis, XVI, 2). Sia che faccia riferimento ai cristiani oppure agli ebrei, lo Stesso Svetonio informa che al tempo dell’Imperatore Claudio vennero espulsi da Roma dei Giudei che avevano provocato dei tumulti (cfr. Vita Claudii, XXIII, 4) e di un analogo provvedimento di espulsione abbiamo traccia persino negli Atti degli Apostoli, 18:1-2. Di conseguenza è improbabile che Giuseppe Flavio, come ebreo e come romano, non si sia conformato alla mentalità romana del periodo, di conseguenza egli non scrisse mai nulla sui cristiani, oppure scrisse qualcosa di fortemente negativo poi corretto da falsari in epoche posteriori.
Contro questa argomentazione possiamo osservare che se ammettiamo valido in linea di massima il ritratto del movimento che faceva capo a Gesù che ci fornisce il Nuovo Testamento, i cristiani appaiono come una setta pacifica, ascetica, non necessariamente anti-romana (si ricordi il “date a Cesare quello che è di Cesare”), che rifiutava la guerra (vedi la profezia della distruzione del Tempio nei Sinottici), il suo capo, Gesù, non è uno dei tanti agitatori politici o pseudo condottieri del periodo, almeno secondo il classico racconto evangelico. Queste caratteristiche, pertanto, non sono tali da costringere necessariamente Giuseppe ad un giudizio negativo sull’opera di Gesù e sui cristiani. Anche il ritratto di Giovanni Battista che compare nelle Antichità Giudaiche, considerato autentico dagli storici, non è negativo nonostante Giovanni, che attirava a sé le folle proprio come Gesù, venga fatto uccidere da Erode Antipa, così come non è negativa la descrizione della setta degli Esseni che viveva nel deserto e che Giuseppe aveva persino conosciuto di persona. Eppure gli Esseni erano una setta intransigente e ortodossa, che aveva anche combattuto contro i Romani durante la guerra giudaica, come raccontato dallo stesso Giuseppe Flavio in Guerra Giudaica, Libro 2, 119-61. Giuseppe scrive degli Esseni che “il loro spirito fu assoggettato ad ogni genere di prova durante la guerra contro i romani, in cui stirati e contorti, bruciati e fratturati e passati attraverso tutti gli strumenti di tortura perchè bestemmiassero il legislatore o mangiassero qualche cibo vietato, non si piegarono a nessuna delle due cose, senza nemmeno una parola meno che ostile verso i carnefici e senza versare una lacrima. Ma sorridendo tra i dolori, e prendendosi gioco di quelli che li sottoponevano ai supplizi, esalavano serenamente l’anima come certi di tornare a riceverla.” Nonostante abbiano subito le persecuzioni dei Romani e probabilmente abbiano combattuto attivamente contro Roma, gli Esseni sono descritti in termini sostanzialmente positivi e benevoli nel resto del brano che compare nelle Antichità Giudaiche. Osserviamo poi che le testimonianze di Tacito, di Svetonio e di Plinio il Giovane sono tutte posteriori di dieci o quindici anni rispetto alla data di prima stesura delle Antichità: è possibile che prima di questo periodo i cristiani non costituissero una grave preoccupazione per i Romani. Inoltre le persecuzioni neroniane potrebbero essere state di molto amplificate da Tacito e Svetonio nell’intento di descrivere negativamente i cristiani oppure di screditare la figura dell’Imperatore Nerone, che non amavano. Da ultimo si osservi che molti considerano spurie le stesse testimonianze di Tacito e di Svetonio, sicché semplicemente potrebbero non essere mai esistite. Di conseguenza è possibile ipotizzare l’esistenza di un vago accenno a Gesù in termini positivi, ammesso che il ritratto di Gesù fornitoci dai Vangeli sia coerente con la sua reale figura storica.
Argomentazioni a sostegno della parziale autenticità del T.F.
Esaminiamo ora alcuni argomenti che mostrano come il testimonium flavianum si debba considerare autentico, seppure interpolato in alcuni punti.
Le interpolazioni sono indipendenti dal testo
Il brano presenta tre evidenti interpolazioni: “Se pure bisogna chiamarlo uomo“, “Egli era il Cristo“, “Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunciato i divini profeti queste e migliaia di altre meraviglie riguardo a lui”. Una volta che queste frasi parentetiche sono state rimosse dal testo il resto del passo conserva un accettabile senso grammaticale e logico. In altre parole non si ottiene un testo logicamente e grammaticalmente assurdo sopprimendo le frasi chiaramente interpolate. La necessaria presenza della frase interpolata “egli era il Cristo“, richiesta dalla conclusione del testimonium “non hanno smesso di cessare coloro che da costui sono chiamati cristiani“, potrebbe essere considerata compatibile con lo stile di Giuseppe, che ad esempio dà per scontata la derivazione del nome del porto di Sebastos da Cesare. Depurato dalle interpolazioni iltestimonium diventa un breve e vago accenno all’esistenza di Gesù visto in termini certamente benevoli ma non spiccatamente filo cristiani. Poiché l’esistenza di Gesù Cristo come figura storica non è mai stata messa in discussione fino al XVI secolo (vedi nota 3), un piccolo brano in cui si riassumevano molto sbrigativamente fatti del resto già noti dai Vangeli non era utile nelle controversie che vedevano opposti gli apologisti cristiani contro i pagani e meno che meno nell’ambito delle lotte all’interno dello stesso movimento cristiano. Depurato delle postulate interpolazioni, il passo si ridurrebbe a:
Visse in questo tempo Gesù, uomo sapiente. Operò infatti azioni straordinarie e fu maestro di uomini che accolgono con diletto la verità, e così ha tratto a sé molti Giudei e anche molti Greci. Anche quando per denuncia di quelli che tra noi sono i capi Pilato lo fece crocifiggere, quanti da prima lo avevano amato non smisero di amarlo. Ancora oggi sussiste il genere di quelli che da lui hanno assunto il nome di Cristiani.
Nella versione di cui sopra, tratta dall’edizione delle Antichità Giudaiche libri XII-XX curata e tradotta dal greco da M. Simonetti, abbiamo semplicemente omesso le evidenti interpolazioni di matrice cristiana. Il passo, in questa forma, non è assolutamente una professione di fede cristiana da parte di Giuseppe, anche se Gesù è visto come un personaggio positivo che fu messo a morte dai Romani per denuncia della classe dirigente dei Giudei. Il giudizio positivo di Giuseppe nei confronti di Gesù si concentra, essenzialmente, su tre parole: la sua definizione come uomo sapiente o saggio, le opere straordinarie compiute da egli compiute e il fatto che fu maestro di coloro che accolgono la verità. A partire da queste tre parole si è anche cercato di verificare se fosse possibile una traduzione dal greco in cui Gesù sia descritto in termini meno positivi, se non negativi. Per esempio l’aggettivo sofÕj con cui viene designato Gesù può significare anche abile, astuto, millantatore, assumendo quindi una connotazione negativa. Le opere straordinarie, paradÒxwn œrgwn, possono anche essere opere paradossali, contrarie alla mentalità e al modo di pensare dei Giudei di quel tempo, gesti quindi visti negativamente da Giuseppe. Infine la “verità” di cui parla il testimonium, nel testo greco è t¢lhqÁ = t¦ ¢lhqÁ, un’espressione che si potrebbe facilmente confondere con t¢»qh = t¦ ¢»qh. Ora, ¢»qhj è un aggettivo che significa non abituale, insolito, strano per cui se supponiamo che ad un certo punto nella tradizione manoscritta si sia generato un errore di trascrizione con l’originale t¦ ¢»qh al posto di t¦ ¢lhqÁ, avremmo una interpretazione in senso spregiativo del seguito di Gesù. Traducemdo dal greco il testimonium e conferendo alle parole sofÕj, paradÒxwn œrgwn il senso più negativo possibile e supponendo un errore di trascrizione di t¦ ¢»qh(espressione originaria) per t¦ ¢lhqÁ, avremmo dunque:
Visse in questo tempo Gesù, uomo astuto. Operò infatti azioni paradossali e fu maestro di uomini che accolgono con diletto le cose insolite, e così ha tratto a sé molti Giudei e anche molti Greci. Anche quando per denuncia di quelli che tra noi sono i capi Pilato lo fece crocifiggere, quanti da prima lo avevano amato non smisero di amarlo. Ancora oggi sussiste il genere di quelli che da lui hanno assunto il nome di Cristiani.
Si tratta evidentemente di una descrizione profondamente negativa dell’operato di Gesù e del suo seguito. Leggendo un testimonium così ricostruito si comprende bene per quale motivo Giuseppe non poteva credere che Gesù fosse il Cristo, come affermato da Origene. Tuttavia tutte queste traduzioni si scontrano in realtà con il fatto che Giuseppe utilizza sofÕj ¢n»r per il re Salomone (cfr. Ant., 8:53) e il profeta Daniele (cfr. Ant., 10:237), personaggi altamente positivi dell’Antico Testamento ed elogiati da Giuseppe. Le opere paradossali, nel linguaggio di Giuseppe, sono le medesime che compì anche il profeta Elia (cfr. Ant., 9:182), altro personaggio altamente carismatico, lodato da Giuseppe. L’errore di trascrizione che si è dovuto introdurre è certamente suggestivo, tuttavia non abbiamo alcun manoscritto delle Antichità che lo contenga, tutta la tradizione manoscritta attesta piuttosto che il testimonium conteneva molto probabilmente t¢lhqÁ, con la l al posto giusto, siamo quindi davanti ad una congettura non suffragata da fatti. Infine non vi è alcuna altra ragione per supporre che il testimonium debba avere un tono spiccatamente ironico oppure sprezzante nei confronti di Gesù o dei Cristiani, è solo traducendo queste parole nel senso più negativo che è possibile conferire loro che si ottiene un testo ostile nei confronti del Cristianesimo. Ma altrove Giuseppe non dimostra affatto ostilità nei confronti dei Cristiani, cfr. il passo su Giacomo il Giusto in Ant. 20.9.1. Per queste ragioni le traduzioni preferiscono mantenere una traduzione sostanzialmente benevola nei confronti di Gesù e del Cristianesimo, vedi ad esempio la versione dal greco di M. Simonetti in Flavio Giuseppe, Storia dei Giudei da Alesssandro Magno a Nerone (“Antichità Giudaiche”, libri XII-XX), A. Mondadori, Milano, 2002, oppure quella di L. Moraldi, Antichità Giudaiche, UTET, Torino, 1998.
Versione araba del testimonium flavianum
La teoria delle interpolazioni ha anche una base documentale. Nel 1971 il Prof. Schlomo Pines dell’Università Ebraica di Gerusalemme comunicò la scoperta di una citazione del testimonium flavianum in un’opera di Agapio di Ierapoli, la Storia Universale, una cronaca del mondo dalle origini sino al 941-42 d.C. scritta in arabo e databile al X secolo dopo Cristo [5]. Agapio era un cristiano siriaco vissuto nel X secolo d.C., vescovo di Ierapoli, una città della Frigia in Asia Minore. La citazione di Agapio di Ierapoli è particolarmente interessante in quanto coincide con il testimonium flavianum depurato da alcune interpolazioni. Il brano, tradotto in italiano dal testo riportato nel libro di J.H. Charlesworth, è:
Similmente dice Giuseppe l’ebreo, poiché egli racconta nei trattati che ha scritto sul governo dei Giudei: “ci fu verso quel tempo un uomo saggio che era chiamato Gesù; egli dimostrava una buona condotta di vita ed era considerato virtuoso (oppure: dotto) ed aveva come allievi molta gente dei Giudei e degli altri popoli. Pilato lo condannò alla crocifissione e alla morte, ma coloro che erano stati suoi discepoli non rinunciarono alla sua dottrina e raccontarono che egli era loro apparso tre giorni dopo la crocifissione ed era vivo ed era forse il Messia del quale i profeti hanno detto meraviglie.” NOTA: Questa versione del testo di Agapio di Ierapoli coincide con quella del libro di John P. Meier, Gesù Cristo e il Cristianesimo nella tradizione giudaica antica, Brescia, 1994, pag. 65; coincide anche con quella del libro di J.H. Charlesworth, Jesus Within Judaism: New Light from Exciting Archaeological Discoveries, Garden City, Dubleday, 1988, pag. 95. |
Come si vede questo passaggio omette alcune frasi considerate interpolazioni anche dai sostenitori dell’esistenza del testimonium flavianum nell’edizione originale delleAntichità. Gesù è presentato semplicemente come uomo saggio, manca la frase “se pure bisogna chiamarlo uomo” che richiede la consapevolezza da parte dell’autore che esistono sostenitori della divinità di Gesù. Manca poi qualunque riferimento alle opere miracolose o straordinarie compiute da Gesù, che viene presentato come un filosofo, un maestro o un oratore seguito da una moltitudine di persone. I suoi seguaci non sono definiti cristiani, quindi il passo non richiede una esplicita menzione al fatto che Gesù era detto il Cristo. Inoltre l’apparizione dopo la crocifissione (risurrezione) non è un pensiero di Giuseppe ma lo storico afferma che i discepoli di Gesù raccontavano questo del proprio maestro. Anche l’accenno al fatto che Gesù era probabilmente il Cristo sembra essere piuttosto quello che pensavano i suoi discepoli che non il pensiero di Giuseppe, dal momento che è espresso in una forma dubitativa. Alcuni studiosi, come J.H. Charlesworth, considerano questo passaggio, scoperto nel 1971, come un reperto molto importante, forse più importante della più antica citazione di Eusebio del testimonium. Esso infatti costituirebbe la prova che esisteva anticamente un passaggio non interpolato nelle Antichità Giudaiche in grado di spiegare molte anomalie. J.H. Charlesworth scrive:
“Quello che è subito evidente – confrontando tra loro la versione greca e la versione araba – è che le palesi interpolazioni cristiane sono manifestamente assenti nella versione araba.” (J.H. Charlesworth, Jesus within Judaism: New Light from Exciting Archaeological Discoveries, New York, Doubleday, 1988, pag. 95).
Lo stesso Charlesworth riconosce però che anche nella versione araba vi sono delle interpolazioni:
“La possibilità che qualcuno, incluso Gesù, potesse essere il Messia non era una affermazione che a quei tempi potesse essere fatta con leggerezza da qualunque giudeo, specialmente poi da uno che aveva l’autorevolezza e le credenziali di Giuseppe Flavio. Ma comunque è anche altrettanto evidente che nessun cristiano avrebbe mai potuto scrivere le parole: ‘Egli, forse, era il Messia’. E’ opportuno assumere dunque che quello che è stato scritto da Giuseppe non si sia accuratamente conservato in ogni esistente versione (greca, araba, slava); il contenuto è stato leggermente alterato da copisti cristiani.” – (J.H. Charlesworth, op. cit., pag. 95)
Quello che possiamo concludere dalla scoperta di S. Pines è che esiste una versione del testimonium flavianum in cui alcune evidenti interpolazioni presenti nel testo greco risultano mancare. Poiché il brano di Agapio di Ierapoli è di epoca medievale è altamente improbabile che egli abbia volontariamente ritoccato il testimonium in modo da occultare il riferimento al fatto che Gesù è il Cristo o il Messia, oppure in modo da esprimere dubbi sulla risurrezione. Se davvero il testimonium era stato scritto da Giuseppe così come oggi lo conosciamo, con tutte quelle che sono state riconosciute come interpolazioni, nessun cristiano lo avrebbe di certo ritoccato nella direzione di sminuire le qualità di Gesù: è il principio basilare della lectio brevis preferenda, in base al quale un passo ove mancano parti che sarebbero sicuramente state accettate dal copista è da considerare autentico. Infine, è interessante osservare che nella versione araba manca qualunque riferimento al fatto che Gesù fosse autore di opere straordinarie, come emerge almeno dal testimonium così come appare nel libro (in inglese) di Charlesworth e di John Meier (in italiano): si tratta della costruzione che K. Olson dimostra essere spiccatamente eusebiana. Pertanto è possibile ipotizzare che effettivamente il brano scoperto da Schlomo Pines provenga da una tradizione estranea alle (presunte) interpolazioni di Eusebio di Cesarea. Nell’utilizzare questo testo, comunque, occorre una certa cautela. Infatti dobbiamo considerare che è scritto in arabo non in greco, quindi è possibile che la traduzione – non sappiamo se eseguita direttamente da Agapio di Ierapoli oppure nel manoscritto delle Antichità utilizzato da Agapio – non sia accurata, o persino che la versione inglese che appare nel libro di Charlesworth o quella italiana di Meier non sia aderente all’antico testo arabo.
Vocabolario del testimonium flavianum
S. Mason e K. Olson, come abbiamo visto, hanno portato argomenti stilistici e letterari a sostegno della non autenticità del testimonium flavianum. Esistono tuttavia argomentazioni puramente stilistiche secondo cui il testimonium, depurato delle sezioni chiaramente interpolate, è coerente con lo stile letterario di Giuseppe. Per esempio l’incipit “Ci fu verso quel tempo” (g…netai d kat¦ toàton tÕn crÒnon) è spesso utilizzato da Giuseppe Flavio. Anche l’utilizzo della frase “uomo saggio” (sofÕj ¢n»r) è utilizzata per esempio in Ant. 10,237 per il profeta Daniele e in Ant. 8,53 con riferimento al re Salomone. Giovanni Battista in Ant. 18.5.2 (o 18.117 secondo un’altra numerazione) è definito come ¢gaqÕn ¥ndra che significa “uomo buono“. La descrizione conclusiva dei cristiani come “tribù” (gr. fàlon) non è caratteristica dei primi testi cristiani e neppure compare nelle citazioni di testi pagani in opere di autori cristiani fino a Eusebio di Cesarea (vedi anche Cap. 2.2.5 del presente documento). Essa è invece utilizzata da Giuseppe nelle sue opere, sebbene mai per distinguere gruppi interni all’ebraismo. Poiché Giuseppe precisa che Gesù attirò a sé non solo i Giudei ma anche persone di altri popoli (kaˆ polloÝj mn ‘Iouda…ouj, polloÝj d kaˆ toà `Ellhnikoà ™phg£geto·), affermazione confermata anche nella versione araba del testimonium, come già abbiamo osservato l’utilizzo del termine tribù nel senso di nazionalità (come usuale in Giuseppe) può anche apparire giustificato. La frase relativa ai miracoli compiuti da Gesù definiti come opere paradossali (paradÒxwn œrgwn, in greco) non è caratteristica dei primi cristiani e non è coerente con il vocabolario del Nuovo Testamento. Nei Sinottici, soprattutto in Matteo e Marco, viene utilizzato frequentemente il termine dunamin (cui si dà il consueto significato di miracolo), anche al plurale dunameis. Luca utilizza sia la parola dunamin (plurale dunameis) che la formasêmeion (plurale sêmeiôn) che corrisponde a “segno” (o “segni”, al plurale) caratteristica di Giovanni e di alcuni passi degli Atti. In Matteo 24:24 viene utilizzata la parola teratache significa “prodigi” per distinguere i fatti prodigiosi compiuti dai falsi profeti che sorgeranno alla fine dei tempi dai miracoli di Gesù. La costruzione paradoxôs ergôn (fatti paradossali, contrari alle leggi comuni) quindi non è certo caratteristica del Nuovo Testamento: nelle Antichità Giudaiche, invece, Giuseppe la utilizza per riferirsi ai miracoli compiuti dal profeta Elia (Ant. 8, 347 e 9,182). Come abbiamo osservato, K. Olson ha fatto notare comunque che una simile costruzione potrebbe essere coerente con lo stile tipico di Eusebio di Cesarea, al quale attribuisce la fabbricazione dell’intero testimonium flavianum nel IV secolo dopo Cristo.
Se depurato dalle evidenti interpolazioni, quindi, il testimonium è sostanzialmente coerente con lo stile utilizzato da Giuseppe Flavio, il vocabolario è certamente compatibile. Si può osservare a questo punto che sarebbe stato forse semplice per un falsario riprodurre abbastanza fedelmente il tipico stile di Giuseppe Flavio e inserire un brano in modo da farlo sembrare scritto da Giuseppe. Se questa teoria è vera, tuttavia, non è facilmente spiegabile perchè il presunto falsario abbia fatto la fatica di riprodurre lo stile letterario di Giuseppe per confondere e ingannare i lettori e poi abbia inserito alcune evidenti interpolazioni che mai e poi mai Giuseppe avrebbe potuto inserire nelle Antichità. Seguendo fino in fondo questa argomentazione è più semplice pensare che esistesse in origine un breve accenno a Gesù e che il copista abbia semplicemente introdotto le frasi oggi considerate spurie e spiccatamente cristiane: “Egli era il Cristo“, ecc…
Un falsario avrebbe inserito il testimonium in un’altro punto
Nelle Antichità Giudaiche abbiamo una descrizione abbastanza dettagliata dell’assassinio di Giovanni Battista. Questa sezione è generalmente considerata originale dagli esperti, anche in considerazione del fatto che il motivo della messa a morte di Giovanni è diverso da quello presentato nei Vangeli. Sarebbe stato più naturale per un falsario inserire nella sezione relativa a Giovanni (Ant. 18.5.2 ovvero 18.117) il testimonium flavianum dal momento che questi due personaggi sono legati e Giovanni secondo i Vangeli riconosce Gesù come il Messia.
Alcuni, poi, sostengono che creare dal nulla il testimonium flavianum sarebbe stata un’opera di inaudita temerarietà. Chiunque poteva accorgersi che erano state prodotte una o più copie falsificate con addirittura un brano che compariva dal nulla. Supposto che il falsario sia stato realmente Eusebio di Cesarea, con quale coraggio poteva essere egli stesso il primo a utilizzare un passo che non esisteva in alcun altro manoscritto? In realtà questa argomentazione appare piuttosto debole. Nel paragrafo 2.2.2 di questo lavoro abbiamo osservato che esiste l’esistenza di un codice Vossianus (in quanto posseduto dal teologo olandese Vossius) in cui il testimonium flavianum è inserito addirittura nellaGuerra Giudaica che invece non dovrebbe contenerlo. Sappiamo che in epoca medievale uscì spudoratamente una versione ebraica detta di Yosef ben Gorion (Yosippon) che risultò essere chiaramente un falso di fabbricazione ebraica. La scoperta di Schlomo Pines (cfr. 2.3.2) ha poi dimostrato con una prova storica tangibile che esistevano delle versione arabe delle Antichità in cui il testimonium appariva in forma diversa, forse meno corrotta delle tradizionali versioni greche di Giuseppe Flavio. Esiste poi una versione slava delle Antichità chiaramente interpolata in più punti e in molte parti del tutto inattendibile.
Gesù Cristo è condannato da Pilato
La narrazione del ruolo giocato dalle autorità giudaiche nel testimonium flavianum mal si concilia con l’immagine fornita dai Vangeli e dalla letteratura patristica. Nei Vangeli è raccontato che Gesù viene perseguitato dai Giudei per molto tempo prima della condanna definitiva, più volte essi lo accusano e tentano di lapidarlo e di proibirgli di insegnare le sue dottrine al popolo. Gesù viene arrestato per volere dei Giudei, viene preventivamente processato dai sacerdoti che decidono di trascinarlo davanti al procuratore per farlo condannare a morte. Pilato, secondo i Vangeli, tenta di evitare la condanna a morte di Gesù ma non riesce a convincere i sacerdoti e il popolo. Gli ebrei gridano addirittura: “il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli” (Matteo 27:25). Invece nel testimonium flavianum la messa a morte di Gesù è una decisione esclusiva di Pilato, nessuna parola appare nel testimonium per cercare di giustificare l’operato del procuratore romano e concentrare le colpe sui Giudei. Probabilmente un falsario cristiano avrebbe posto enfasi maggiore nel coinvolgere i sacerdoti, gli “uomini notabili” nel testimonium. Da notare poi che qualunque coinvolgimento del popolo o l’accenno alle sedute processuali descritte nel Nuovo Testamento mancano nel testimonium. L’episodio della condanna di Gesù è descritto tutto sommato sbrigativamente, come un fatto di ordinaria amministrazione della giustizia da parte di Pilato. Si noti poi che la colpa della condanna di Gesù da parte del solo Pilato è ancora più evidente nella versione araba del testimonium, dove non si parla più della accusa degli uomini notabili, ma soltanto della sentenza di morte emessa da Pilato.
Gli studi di G.J. Goldberg
Accenniamo qui ad uno studio condotto da G.J. Goldberg e pubblicato nel 1995 [6]. Le parti salienti di questo lavoro sono reperibili anche in rete. Per la prima volta Goldberg evidenziava la possibilità che la descrizione di Gesù data da Giuseppe Flavio nel ben noto testimonium flavianum fosse simile ad una analoga descrizione di un’altro testo. Goldberg ha condotto una ricerca nel Thesaurus Linguae Graecae (T.L.G.) dell’Università di Irvine, un database contenente tutta la letteratura greca oggi conosciuta dalle origini fino al 1453 dopo Cristo, costantemente aggiornato in funzione delle nuove scoperte papirologiche. Se prendiamo le tre parole che ricorrono all’inizio del testimonium flavianum:Ihsoàj, ¢n»r ed œrgwn (risp. Gesù, uomo ed opere) e ricerchiamo un testo in tutta la letteratura greca antica che le contenga in quest’ordine, con uomo a seguire Gesù e opere a seguire uomo, e abbastanza ravvicinate tra loro, proprio come accade nel testimonium, otteniamo sorprendentemente che esiste uno ed un solo testo a fronte di centinaia e centinaia di opere greche che soddisfa la nostra richiesta: trattasi del passo Luca 24:19 e segg., noto come il racconto di Emmaus. Nella traduzione della C.E.I. il testo di Luca è:
Lc 24:19-23 … Gesù il Nazareno (Ihsoà toà Nazarhnoà) che fu profeta (¢n¾r prof»thj) potente in opere (™n œrgJ) e parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni (tr…thn taÚthn ¹mšran ¥gei) da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. |
Si noti che in Luca 24:19 nella traduzione C.E.I. compare la parola “profeta“, ma in realtà il testo greco riporta la doppia definizione di ¢n¾r prof»thj che significherebbe uomo profeta o uomo profetico. L’aspetto umano, nascosto nella traduzione C.E.I., è in realtà quindi bene evidenziato anche nel testo greco di Luca, con una costruzione molto simile a quella di Giuseppe Flavio. In particolare tutto l’inizio del passo di Luca è molto simile a quello del testimonium flavianum tanto è vero che il calcolatore l’ha subito individuato nella ricerca effettuata da Goldberg. Nel brano di Luca troviamo poi il riferimento alla denuncia da parte dei capi di Israele, che ha un parallelo nel testimonium con la denunzia da parte degli “uomini notabili tra noi” (si noti comunque che il racconto di Luca non accenna alla condanna di Pilato). In Luca abbiamo poi l’affermazione: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele“; questa frase potrebbe essere messa in relazione con “Egli era il Cristo“, frase che però viene considerata interpolata, pertanto più verosimilmente se presente nel testo delle Antichità sarebbe stata del tipo: “si pensava che egli fosse il Cristo”, come sembra attestare anche la forma più dubitativa del testo di Agapio di Ierapoli.
Il testimonium e questo passo di Luca hanno anche analogie nell’accenno alla risurrezione di Gesù e addirittura alla specificazione del “terzo giorno“, che viene a costituire un collegamento testualmente molto forte tra i due passi. Da una ricerca condotta da Goldberg risulta che questi due racconti, ovvero il brano di Luca e il testimonium di Giuseppe Flavio, sono gli unici di tutta la letteratura cristiana antica in greco, compreso tutto il Nuovo Testamento (con l’eccezione ovviamente di Luca 24:21) in cui viene utilizzato il “terzo giorno” nella forma accusativa singolare come oggetto di un verbo anziché di una preposizione. Scrive Goldberg:
In Christian doctrine, Jesus’ resurrection occurred “on the third day,” a key expression in statements of belief. The prevalent form uses the preposition “on,” with “third day” the object of the preposition; in Greek, en triti himei. But this is not the form in either Josephus or Luke. In these, “third day” is the object of a verb, and not a preposition. It’s grammatical form is consequently the accusative case, triten hemeran. The verbs (Josephus “having”, Luke “spending” or “passing”) are synonyms here, for in Greek literature echon and agein are used interchangeably when denoting the passing of time. Yet the New Testament does not use this verbal form. Either the prepositional or nominative is used throughout, with Luke being the sole exception. As for other Christian literature, we can again search the TLG database. This time, the computer is asked to search for the phrase the third day in the accusative case, or indeed any combination of triten and hemeran within three or four lines of each other. The results are revealing: Luke’s Emmaus passage and the testimonium are the only two texts using the resurrection third day as object of a verb in all of ancient Christian literature. Inevitably, one must ask if there is some reason why these two authors use this unique form at the same position. The obvious proposal is that there is some dependence: one is based on the other, or both are derived from a prior source. Also supporting this is the awkwardness and lack of clarity in both texts – ask, who is the subject of the verb having/spending in each sentence? This indicates dependence on a source that is as unclear as it is authoritative.
(tratto da: G.J. Goldberg, The Josephus-Luke connection, http://members.aol.com/FLJOSEPHUS/LUKECH.htm).
Sia Giuseppe Flavio che Luca utilizzano il “terzo giorno” tr…thn ¹mšran all’accusativo singolare. Solitamente è più naturale esprimere il terzo giorno nella forma accusativa come oggetto di preposizione anziché di verbo. In greco la preposizione met¦ seguita dall’accusativo ha proprio il significato dell’italiano “dopo”. Si potrebbe dunque dire: “egli apparve loro dopo il terzo giorno“, anteponendo la preposizione “dopo” al “terzo giorno”. In greco avremmo la formula usuale: met¦ tr…thn ¹mšran. Giovanni 20:26, ad esempio, inizia con kaˆ meq’ ¹mšraj Ñktë, che significa: e dopo otto giorni (¹mšraj è accusativo plurale). Giuseppe e Luca invece utilizzano il “terzo giorno” come oggetto di un verbo. Nel caso di Luca il verbo è ¥gw (condurre, portare, passare) impiegato al presente indicativo e la frase risulta essere: tr…thn taÚthn ¹mšran ¥gei, passa (trascorre) il terzo giorno. Una traduzione letterale di Luca 24:21 è quindi “con tutto ciò passa il terzo giorno da quanto questi fatti sono accaduti”. Anche Giuseppe utilizza nel testimonium una costruzione simile, basata però sul verbo œcw che significa avere, possedere: ™f£nh (verbo, apparire, mostrare, pass., 3a sing. aor. ind. = “egli si mostrò”) g¦r (infatti) aÙto‹j (pronome dat. pl., a loro) tr…thn (terzo, aggettivo numerale, acc. sing.) œcwn (verbo avere, possedere; att. pres. ptc. nom. sing.; lett. “avente”) ¹mšran (giorno, acc. sing.) p£lin (di nuovo, avverbio) zîn (verbo vivere, part. pres., “vivente”) = infatti (egli) si mostrò a loro, avente (il) terzo giorno, di nuovo vivente = egli si mostrò a loro dopo tre giorni nuovamente vivo (in un italiano più scorrevole). Dunque Giuseppe e Luca utilizzano il terzo giorno come oggetto risp. dei verbi œcw e ¥gw. Una veloce ricerca in tutto il Nuovo Testamento greco mostra che esistono solo tre occorrenze dell’aggettivo tr…thn all’accusativo singolare: Matteo 20:3, Luca 24:21 e Apocalisse 6:5. Esistono invece venticinque occorrenze ditr…ton (accusativo singolare neutro) ma in nessun caso l’avverbio è collegato al giorno o al trascorrere di tempo misurato in giorni; per esempio lo utilizza Paolo in 2 Cor 13:1 per dire tr…ton toàto œrcomai prÕj Øm©j (questa è la terza volta che vengo da voi). Secondo l’indagine effettuata da Goldberg nel T.L.G. non esiste alcun altro passo da quelli di Luca e Giuseppe Flavio in tutta la letteratura greca classica in cui “il terzo giorno” cristiano sia usato all’accusativo e come oggetto di un verbo.
Goldberg sostiene quindi che esiste una fortissima dipendenza statistica tra i testi dei due brani, che sono quindi interdipendenti. Oltretutto si può notare che il racconto di Emmaus è, nel Vangelo di Luca, la prima descrizione di una apparizione di Gesù dopo la sua risurrezione che compaia in quel testo. Matteo racconta che Gesù apparve prima a Maria di Magdala e Maria; Luca solo dopo il racconto di Emmaus accenna che Gesù è apparso anche a Pietro, ma non dice nulla al riguardo; Giovanni parla dell’apparizione di Gesù alle donne e riferisce poi di altre apparizioni agli Apostoli, avvenute però qualche giorno dopo. La testimonianza di Marco non è considerata affidabile in quanto la parte finale di quel Vangelo manca nei manoscritti più antichi e quello che possediamo oggi sembra piuttosto una collazione di quanto riportato negli altri tre Vangeli canonici. In questo scenario il solo Luca inserisce il brano di Emmaus, in cui Gesù appare ai due discepoli, uno dei quali si chiamava Cleopa. Il motivo per cui nel testo di Luca si conferisce tanta importanza alla apparizione a questi due discepoli, certamente personaggi minori, tanto che l’apparizione a Pietro passa completamente in secondo piano come fosse una diceria, è spiegato da Goldberg supponendo l’esistenza di un antico documento, oggi non più disponibile, al quale Luca e Giuseppe Flavio avrebbero attinto l’uno per scrivere il racconto di Emmaus, l’altro per il brano su Gesù nel testimonium flavianum. Questo documento sarebbe stato così importante per Luca da indurlo a sostenere che la prima apparizione di Gesù dopo la risurrezione avvenne non alle donne o a Pietro, ma a questi due sconosciuti discepoli [7]. Così entrambi gli scrittori potrebbero aver attinto a una fonte scritta preesistente, in modo indipendente l’uno dall’altro. Naturalmente le conclusioni di Goldberg, se da un lato possono essere addotte per avvalorare la teoria della autenticità del passo di Giuseppe Flavio, depurato delle ovvie interpolazioni cristiane, d’altra parte esse possono anche essere utilizzate per sostenere che un falsario cristiano poteva essersi semplicemente ispirato al brano di Luca per costruire artificiosamente il testimonium flavianum anche se Goldberg sembra escludere questa eventualità.
Giuseppe Flavio non era cristiano
La frase di Origene secondo cui Giuseppe Flavio “non credeva che Gesù fosse il Cristo” richiede che ci sia un riferimento ben preciso a Gesù da qualche parte nelle Antichità Giudaiche, posto che non vi sono altri riferimenti a questa tematica in altre opere di Giuseppe Flavio. Poiché l’unico punto in cui Giuseppe Flavio eventualmente ha potuto parlare di Gesù Cristo era il testimonium flavianum si pensa che necessariamente esso dovesse essere presente già ai tempi di Origene con qualche riferimento a Gesù Cristo, chiaramente non nella forma “Egli era il Cristo“, inaccettabile anche alla luce della stessa affermazione di Origene, ma con qualche formula dubitativa come “Egli forse era il Cristo” o “alcuni dicevano che era il Cristo“.
Contro questa osservazione si può rispondere che sarebbe sufficiente far riferimento a quanto scritto da Giuseppe Flavio nella Guerra Giudaica 6.5.4 per sostenere che non poteva credere in Gesù come Cristo in quanto in un passo sosteneva che l’imperatore romano Vespasiano era colui nel quale si erano adempiute le profezie messianiche:
Guerra Giudaica, 6.5.4 – “Ma quello che maggiormente li incitò alla guerra fu una ambigua profezia, ritrovata ugualmente nelle sacre scritture, secondo cui in quel tempo uno proveniente dal loro paese sarebbe diventato il dominatore del mondo. Questa essi la intesero come se alludesse a un loro connazionale, e molti sapienti si sbagliarono nella sua interpretazione, mentre la profezia in realtà si riferiva al dominio di Vespasiano, acclamato imperatore in Giudea.”
Si noti che questa curiosa allusione a Vespasiano come figura messianica è riportata anche nella Historiae di Tacito, ove nel Libro V, sez. 13, è scritto:
“Alcuni videro un significato spaventoso in quegli eventi ma nella maggioranza vi era la convinzione che negli antichi libri dei loro sacerdoti fosse contenuta la profezia che l’oriente sarebbe diventato molto potente e dei condottieri provenienti dalla Giudea erano destinati a conquistare il mondo. Queste misteriose profezie erano relative a Vespasiano e Tito ma la gente comune, con la solita cecità dovuta all’ambizione, aveva interpretato questi grandi destini a loro stessi e neppure i disastri avevano il potere di portarli a credere alla realtà.”
Si noti che Tacito scrisse l’Historiae abbondantemente dopo la Guerra Giudaica, quindi potrebbe aver consultato l’opera di Giuseppe Flavio per comporre il Libro V in cui accenna alle cause della guerra giudaica e agli eventi che accaddero nell’anno 70 dopo Cristo.
Presenza di un secondo riferimento a Gesù Cristo (Ant. 20.9.1)
In Antichità Giudaiche 20.9.1 esiste un secondo riferimento a Gesù Cristo che, per la forma in cui è scritto, richiederebbe la presenza del più noto testimonium flavianum, oppure costituirebbe una testimonianza che Gesù era un personaggio storico conosciuto da Giuseppe Flavio. In questo passaggio, del quale si discuterà più approfonditamente in seguito, si parla del “fratello di Gesù, detto il Cristo, il cui nome era Giacomo“. In questo caso l’identificazione di Giacomo avviene per mezzo di Gesù, che sembra essere nel contesto un personaggio molto noto del periodo, dal momento che Giuseppe non ha identificato Giacomo con il nome del padre (Giacomo figlio di …) ma con quello del fratello: ne segue che Giuseppe non può non aver scritto nulla su Gesù in qualche altro punto precedente delle Antichità, data la sua importanza storica. Sembra pertanto logico pensare che la definizione di questo altrimenti sconosciuto Gesù si trovi proprio nel precedente testimonium flavianum di cui al libro 18. Oppure, in alternativa, Giuseppe Flavio conosceva la storia di Gesù Cristo e ha identificato Giacomo con il nome di un personaggio che riteneva ben noto ai suoi lettori.
Se ad un primo esame sembra ovvio che Giuseppe Flavio abbia inserito precedentemente al passaggio 20.9.1 un accenno a Gesù, necessario poi in 20.9.1 per definire un altrimenti sconosciuto Giacomo, si può osservare che in Guerra Giudaica Giuseppe presenta il procuratore della Giudea Antonio Felice come “fratello di Pallante“, senza spiegare in alcun altro passo dell’opera chi sia questo Pallante, che è dunque supposto essere sufficientemente noto al lettore del periodo, oppure non importante ai fini della narrazione:
G. Flavio, Guerra Giudaica, 2.247. Dipoi Claudio inviò Felice, il fratello di Pallante, come procuratore della Giudea, della Samaria, della Galilea e della Perea, e trasferì Agrippa da Calcide a un regno maggiore assegnandogli i domini che un tempo erano appartenuti a Filippo, cioè la Traconitide, la Batanea e la Gaulanitide, cui aggiunse il regno di Lisania e l’antica tetrarchia di Varo.
Il brano di cui sopra, tratto da Guerra Giudaica, mostrerebbe quindi un esempio in cui Giuseppe identifica un personaggio mettendolo in relazione con un altro personaggio che però non viene mai menzionato precedentemente nel testo. Pallante è citato anche nelle Antichità Giudaiche:
G. Flavio, Ant. Giud., 20.137 – Allora Claudio inviò Felice, fratello di Pallante, a presiedere gli affari della Giudea.
In Guerra Giud., 2:247 e Ant., 20:137 il procuratore Antonio Felice è citato per la prima volta e identificato come fratello di Pallante, un personaggio che non ha attinenza con la storia della Giudea e mai citato altrove nelle opere di Flavio Giuseppe, se si esclude il breve accenno in Ant. 20:182 in cui è scritto che probabilmente Pallante evitò al fratello Antonio Felice una severa punizione quando questi fu rimosso dall’incarico di procuratore della Giudea. Giuseppe assume che Pallante sia sufficientemente noto ai propri lettori da non dover spiegare chi è, oppure non ritiene importante ai fini della narrazione che i propri lettori sappiano di chi si tratta dal momento che la sua figura non viene ad intersecarsi in alcun altro modo con la storia della Giudea. Pallante, in effetti, fu un personaggio romano molto conosciuto nel I secolo d.C. e successivamente. Morto verso il 62 d.C., era un liberto di Antonia, madre dell’imperatore Claudio. Pallante, nonostante fosse un liberto, fu l’amministratore dell’immenso patrimonio finanziario dell’impero romano e nell’immaginario collettivo era noto per le sue immense ricchezze personali. Di lui scrisse ad esempio il poeta satirico latino Giovenale (80-140 d.C. circa) molti anni dopo che Pallante era già morto (cfr. Satire, I, vv. 106-109):
quid confert purpura maior
optandum, si Laurenti custodit in agro
conductas Corvinus oves, ego possideo plus
Pallante et Licinis?
(che vantaggio dà la porpora, quando Corvino pascola le pecore degli altri nei campi di Laurento e io ho più quattrini di Pallante e dei Licini?) Quasi mezzo secolo dopo la sua morte, dunque, le fortune di Pallante erano ancora citate come esempio di ricchezza smisurata. Pallante è citato varie volte anche da Tacito, cfr. Annales, XII, 1-2, 25, 53, 65; XIII, 2, 14; XIV, 65. Siamo quindi in presenza di un personaggio pubblico così noto da poter essere citato da Giuseppe Flavio per identificare il procuratore Felice. Allo stesso modo Gesù, nel passaggio Ant. 20:200 (o 20.9.1) potrebbe essere stato considerato da Giuseppe un personaggio storico così noto da poterlo citare come fratello di Giacomo. Ma, diversamente dal caso di Pallante, la cui attività non è evidentemente connessa direttamente al racconto della storia della Giudea nella versione di Giuseppe Flavio, Gesù Cristo visse ed operò in Palestina per cui sembra inverosimile che Giuseppe, il quale ha utilizzato il nome di Gesù Cristo in Ant. 20.9.1, non abbia inserito neppure un breve accenno alla figura storica di Gesù nel testimonium.
Il nome di Gesù Cristo è l’unico mezzo per identificare chi era il Giacomo menzionato da Giuseppe Flavio. Ancora oggi possiamo identificarlo con Giacomo il Giusto, il fratello di Gesù secondo quanto apprendiamo in Marco 6:3 e Galati 1:19. Se Giuseppe avesse parlato solo genericamente di un certo Giacomo, sarebbe impossibile capire di quale personaggio storico stesse parlando. Se Giuseppe non ha indicato Giacomo con il nome del padre ma con quello del fratello, verosimilmente ciò accadde a motivo dell’importanza storica del fratello. Giacomo figlio di … avrebbe avuto un senso e un tono ben diverso da Giacomo fratello di Gesù Cristo.
Antichità Giudaiche, il passaggio 20.9.1
Oltre al riferimento in 18.3.3, noto come testimonium flavianum, esiste un secondo passaggio nelle Antichità Giudaiche in cui Giuseppe riferisce dell’assassinio del “fratello di Gesù detto il Cristo, il cui nome era Giacomo“. Si ritiene comunemente che questo personaggio sia Giacomo il Giusto, fratello di Gesù Cristo (cfr. Marco 6:3 e Galati 1:19) e capo della chiesa giudeo-cristiana di Gerusalemme. Riproduciamo il testo tradotto dal greco nella versione di M. Simonetti.
Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, 20.9.1 (20:197-203) – Quando Cesare ebbe notizia che Festo era morto, inviò in Giudea come procuratore Albino. Dal canto suo, il re tolse la carica sacerdotale a Giuseppe e gli dette come successore il figlio di Anano, che si chiamava anche lui Anano. Dicono a questo proposito che Anano il vecchio sia stato quanto mai fortunato perché tutti e cinque i figli che ebbe esercitarono il sommo sacerdozio al servizio di Dio, dopo che egli aveva in precedenza tenuto quella carica per lungo tempo, ciò che non si è verificato per nessun altro dei sommi sacerdoti presso di noi. Il giovane Anano, che ho detto aver ricevuto la carica sacerdotale, era di carattere duro e oltremodo temerario, e seguiva la scuola dei Sadducei, che sono i più rigorosi tra tutti i Giudei quanto a giudicare, come ho già esposto. Essendo tale di indole, Anano ritenne di avere un’occasione favorevole quando Festo morì e Albino era ancora in viaggio: riunisce il Sinedrio dei giudici e porta in giudizio Giacomo, il fratello di Gesù detto Cristo, e alcuni altri, e accusatili di aver trasgredito le leggi, li consegna alla folla per farli lapidare. Quanti però in città erano considerati i più moderati, per quanto diligenti nell’osservanza della legge, furono indignati per questo procedimento e si rivolsero segretamente al re, invitandolo ad ordinare ad Anano di non agire più in questo modo: non era infatti la prima volta che egli si comportava non rettamente. Alcuni di loro poi andarono incontro ad Albino, che stava venendo da Alessandria, e lo informarono che Anano non aveva la facoltà di riunire il Sinedrio senza il suo permesso. Convinto da questi argomenti Albino scrive irritato ad Anano minacciandolo che lo avrebbe punito. Perciò il re Agrippa lo depose dalla carica che aveva tenuto per tre mesi e lo sostituì con Gesù, figlio di Damnios. (da: Flavio Giuseppe, Storia dei Giudei da Alessandro Magno a Nerone, “Antichità Giudaiche” libri XII-XX, introduzione, traduzione e note a cura di Manlio Simonetti, A. Mondadori editore, Milano, 2002). |
Secondo Giuseppe Flavio Giacomo il Giusto venne ucciso quando il procuratore Festo era morto e prima dell’arrivo di Lucceio Albino, il nuovo procuratore incaricato da Roma: siamo quindi nel 62 dopo Cristo, quattro anni prima dello scoppio della guerra giucaica. Contrariamente al testimonium flavianum, che alcuni pensano essere completamente un falso, la maggior parte degli studiosi concorda sulla sostanziale autenticità di questo brano, essenzialmente per due ragioni:
1. L’interesse del racconto di Giuseppe non è sulla figura di Giacomo e meno che meno su quella di Gesù Cristo, ma piuttosto sulla vicenda di Anano che viene destituito dalla carica di sommo sacerdote. Giacomo e soprattutto Gesù sono citati di sfuggita. Giuseppe racconta della vicenda successa ad Anano, non a Giacomo.
2. La versione dell’assassinio di Giacomo data da Giuseppe Flavio è diversa dalla versione ufficiale del martirio secondo la Chiesa, dovuta ad Egesippo. Secondo la tradizione Egesippo è un padre della Chiesa vissuto nel II secolo dopo Cristo; scrisse una storia della Chiesa, la più antica che si conosca, di cui alcuni frammenti vengono conservati nella Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea. Alcuni pensano che Egesippo sia un personaggio fittizio, inventato da Eusebio di Cesarea per conferire maggiore autorevolezza ai propri scritti: pare in effetti che Eusebio sia il primo a citare frammenti di questo antico autore. Si noti che anche le motivazioni dell’uccisione di Giovanni Battista date da Giuseppe Flavio in Ant. 18.5.2 (o 18.117) sono leggermente differenti da quelle evangeliche.
Se la sostanziale autenticità del passaggio 20.9.1 non è mai stata messa seriamente in discussione, si è dibattuto invece sulla presenza del riferimento a Gesù detto il Cristo nell’originale di Giuseppe.
Citazioni del passaggio 20.9.1
Contrariamente al testimonium flavianum questo passaggio è citato già da Origene (185-250 d.C. circa) nel Commentario a Matteo (10.17) e nel Contra Celsum (1.47 e 2.13). Inoltre è stato utilizzato anche da Eusebio di Cesarea (265-340 d.C. circa) e S. Girolamo (340-420 d.C. circa). Tuttavia, si nota una notevole imprecisione nella citazione di questo passo: secondo le citazioni di Origene, Eusebio e S. Girolamo Giuseppe credeva, come altri ebrei, che la causa dell’assedio di Gerusalemme fosse proprio la messa a morte di Giacomo il Giusto, raccontata in Ant. 20.9.1. Ma, come abbiamo visto, Giuseppe non sostiene nulla del genere, tanto meno riporta che qualcuno abbia mai creduto queste cose.
Origene, Commentario a Matteo, 10.17. “E una così grande reputazione fra la gente per la sua rettitudine fece innalzare Giacomo al punto che Giuseppe, che scrisse le Antichità Giudaiche in venti libri, quando desiderava esporre la causa per cui la popolazione soffrì una così grande pena al punto che persino il tempio venne raso al suolo, diceva che quei fatti accaddero a causa dell’ira di Dio in conseguenza delle cose che essi avevano osato fare contro Giacomo, il fratello di Gesù detto il Cristo. E la cosa stupefacente è che, sebbene egli non credesse che Gesù fosse il Cristo, egli dava ancora testimonianza della rettitudine di Giacomo; ed egli dice che anche la gente pensava di aver sofferto quei fatti a causa di Giacomo.”
Origene, Contra Celsum, 1.47. “Ora questo scrittore [Giuseppe Flavio], sebbene non credente in Gesù come Cristo, nell’indagare le cause della caduta di Gerusalemme e della distruzione del tempio – anche se avrebbe dovuto dire che la cospirazione contro Gesù era la vera causa di quelle calamità che affliggevano popolazione, perchè avevano messo a morte Cristo, che era un profeta – dice tuttavia, sebbene contro la sua volontà non sia poi molto lontano dalla verità, che questi disastri accaddero presso gli ebrei come punizione per la morte di Giacomo il Giusto, che era il fratello di Gesù chiamato il Cristo, poiché i Giudei lo avevano messo a morte nonostante fosse un uomo che si distingueva per la sua rettitudine. Paolo, un discepolo fedele di Gesù, dice che egli considerava questo Giacomo come un fratello del Signore [8], ma non per il suo legame di sangue, quanto piuttosto per la sua virtù e la sua dottrina. Se, allora, egli sostiene che fu a causa di Giacomo che la desolazione di Gerusalemme colpì gli ebrei, come potrebbe essa non essere legata al fatto che queste cose accaddero a causa della morte di Gesù Cristo, della cui divinità molte Chiese hanno testimoniato, composte da quelli che sono stati riuniti dal fiume dei peccati, e che si sono uniti al Creatore, e che compiono le loro opere per il Suo compiacimento?”
Origene (185-250 d.C. circa), Contra Celsum, 2.13. “Ma in quel tempo non c’erano legioni attorno Gerusalemme che la circondassero, la chiudessero e la assediassero; l’assedio iniziò sotto il regno di Nerone e durò fino al tempo del governo di Vespasiano, il cui figlio Tito distrusse Gerusalemme a causa, come dice Giuseppe, di Giacomo il Giusto, il fratello di Gesù detto il Cristo, ma in verità a causa di Gesù Cristo il figlio di Dio.”
Eusebio di Cesarea (265-340 d.C. circa), Storia Ecclesiastica, 2.23.22. “Giacomo era un uomo così ammirabile e celebrato da tutti per la sua giustizia, che persino il più sensibile tra i giudei era dell’opinione che ciò fu la causa dell’assedio di Gerusalemme, che successe subito dopo il suo martirio, a causa del fatto che osarono procedere contro di lui. Giuseppe, come minimo, non ha esitato a testimoniare questo fatto nei suoi scritti, dove dice: ‘Queste cose accaddero ai Giudei a causa dell’assassinio di Giacomo il Giusto, che era un fratello di Gesù detto il Cristo. Infatti i Giudei lo uccisero, sebbene fosse un uomo giusto.’ E lo stesso scrittore registra la sua morte anche nel diciannovesimo libro delle Antichità Giudaiche, con le seguenti parole: [Segue la citazione di Antichità Giudaiche 20.9.1]”
San Girolamo (340-420 d.C. circa), De Viribus illustribus. “Giuseppe racconta che secondo la tradizione Giacomo aveva una così grande santità e reputazione presso la popolazione che si credeva che la caduta di Gerusalemme fosse avvenuta come conseguenza della sua messa a morte.”
Che spiegazione dare a queste gravi incongruenze? R. Eisenman ha suggerito che questi riferimenti derivino da una citazione di Giuseppe presa da un passaggio diverso – oggi perduto – dal nostro Ant. 20.9.1, perchè in quest’ultimo non si afferma in nessun punto che la morte di Giacomo portò alla distruzione di Gerusalemme e del Tempio, come è evidente dal confronto delle citazioni patristiche di cui sopra con Ant. 20.9.1. E’ possibile immaginare che in qualche punto delle sue opere Giuseppe abbia mai affermato che la caduta di Gerusalemme fosse una sorta di punizione divina provocata dall’assassinio di Giacomo? Origene, in Contra Celsum 1.47, afferma che essa appare quando Giuseppe stava “indagando sulle cause della caduta di Gerusalemme e la distruzione del tempio”. Eusebio inoltre sembra sostenere che il riferimento non provenga dalle Antichità Giudaiche ma da un’altra opera di Giuseppe Flavio. Questo fa pensare che potesse forse trovarsi in prossimità dell’attuale passo 6.5.3 della Guerra Giudaica dopo il racconto della descrizione della distruzione del Tempio, quando Giuseppe elenca alcune profezie o segni nefasti che potevano essere interpretati come predizione della distruzione del Tempio. Nel passaggio 6.5.3, assieme ad alcuni portentosi miracoli, Giuseppe riferisce di un certo folle chiamato Gesù figlio di Anania, definito come “rozzo contadino“, che per sette anni e cinque mesi andò gridando tra la popolazione, ammonendola: “Povera Gerusalemme!” Egli venne ucciso durante l’assedio del 70 d.C. e questo significa che iniziò le sue lamentazioni nel 62 d.C. perchè secondo Giuseppe egli iniziò “quattro anni prima che iniziasse la guerra”. Può darsi allora che il Giacomo di cui in Ant. 20.9.1 fosse fratello di questo Gesù, che iniziò le sue lamentazioni in seguito alla morte del fratello. In seguito, vedendo che le nefaste profezie di Gesù andavano verificandosi, la popolazione avrebbe davvero attribuito la causa del disastro proprio alla morte del fratello come, forse, sostenuto da Gesù [9]. Questa spiegazione è ovviamente nulla di più che una ipotesi di lavoro e presenta anche delle lacune. Infatti il Giacomo di cui in Ant. 20.9.1 è certamente un personaggio di un certo rilievo, a causa della sua messa a morte i Giudei si rivolgono addirittura al re Agrippa e al procuratore romano. Come poteva dunque essere fratello di un rozzo contadino? Inoltre in Guerra Giudaica Giuseppe Flavio presenta appunto questo Gesù come un folle e un personaggio tutto sommato anonimo e di secondo piano: se fosse stato davvero il fratello del Giacomo la cui morte provocò la destituzione di un sommo sacerdote certamente non avrebbe omesso di ricordarlo. Infine rimane da spiegare perchè questo riferimento sia stato ad un certo punto tagliato dalla Guerra Giudaica, visto che in linea di principio non contrasta con il punto di vista cristiano ed è stato citato da autorevoli padri della Chiesa.
Una spiegazione alternativa deriva dall’ipotesi che Origene non conoscesse bene le opere di Giuseppe Flavio e abbia esagerato nel citare – magari a memoria – un passo in realtà inesistente. Questa teoria è supportata dal fatto che nessuna delle citazioni di Origene, Eusebio e persino S. Girolamo è mai diretta, gli autori parlano sempre in prima persona quasi citando a memoria. San Girolamo è poi il più vago nel riferire questa postulata citazione. E’ persino ipotizzabile che Origene abbia inventato – o creduto di ricordare – una simile considerazione di Giuseppe durante la polemica contro Celso: in seguito questa affermazione si sarebbe propagata ad altri padri della Chiesa, che conoscevano gli scritti di Origene. Scrive Zvi Baras:
“Il parallelismo fra i due testi è già stato sottolineato da Chadwick, che ha provato che Eusebio citò il passaggio di Origene parola per parola, ma cambiandolo in discorso diretto.” (Zvi Baras in L.H. Feldman, Josephus, Judaism and Christanity, Detroit, Wayne State University Press, 1989, a pag. 345).
Per esempio, in Ant. 18.5.2 Giuseppe dice che gli ebrei pensavano che la distruzione dell’esercito di Erode Antipa fosse la punizione divina causata dal fatto che Erode aveva fatto giustiziare Giovanni Battista. E’ possibile che Origene si sia sbagliato pensando di ricordare un episodio che nelle Antichità non è rivolto a Giacomo ma a Giovanni Battista.
Argomenti a sostegno della non autenticità del passaggio 20.9.1
Glossa accidentalmente finita nel testo
La frase di nostro interesse nel paso 20.9.1 è: “così egli convocò il Sinedrio a giudizio e vi condusse il fratello di Gesù, detto il Cristo, il cui nome era Giacomo, ed alcuni altri”. Le parole che si riferiscono a Gesù potrebbero avere le caratteristiche di una breve nota marginale, finita più o meno accidentalmente nel testo. Dunque il riferimento al Cristo sarebbe spurio. Giuseppe probabilmente scrisse della morte di un leader giudeo di nome Giacomo e un lettore cristiano pensò che il riferimento dovesse essere a Giacomo il Giusto, il fratello di Gesù che, secondo la tradizione, era il capo della Chiesa giudeo-cristiana di Gerusalemme in quel periodo. Questo lettore annotò a margine del testo: ‘Giacomo = il fratello di Gesù detto il Cristo’ (cfr. con le parole in Mt 1:16: ‘Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo.’) e più tardi un copista ritenne più o meno ingenuamente questa glossa appartenente al testo e la incorporò in esso. Si sa di altre interpolazioni originatesi in questo modo.
In realtà la teoria di una glossa marginale accidentalmente finita nel testo non è molto semplice da sostenere. Nel caso del testimonium flavianum è molto semplice cancellare ad esempio le parole “Egli era il Cristo” senza modificare la correttezza sintattica del passo: si ottiene ancora un testo intelligibile e grammaticalmente corretto dal momento che la frase è perfettamente parentetica. Ma nel caso del passaggio Ant. 20.9.1 il testo greco recita che misero a morte “ton adelphon Iêsou tou legomenou Christou, Iakôbos onoma autôi” che significa “il fratello di Gesù detto il Cristo, il cui nome era Giacomo”. Se cancelliamo semplicemente la frase ton adelphon Iêsou tou legomenou Christou omettendola dal passaggio, che sarebbe la glossa accidentalmente finita nel testo, il risultato che si ottiene non è sintatticamente corretto, otterremmo qualcosa tipo: “misero a morte il cui nome era Giacomo“, manca evidentemente qualcosa nella frase. Pertanto l’inserzione della ipotetica glossa richiede necessariamente una manomissione della frase originaria, oppure è impossibile che la glossa sia stata accidentalmente inclusa nel testo senza supporre che il testo preesistente sia stato modificato.
Sebbene queste osservazioni non provino definitivamente nulla ma siano soltanto delle ipotesi, esse evidenziano comunque la possibilità di una (più o meno involontaria) interpolazione nella frase.
Mancato richiamo alla figura di Gesù Cristo
Generalmente quando Giuseppe cita un personaggio, è solito richiamare più o meno brevemente le caratteristiche dello stesso. Supponendo che il Gesù fratello di Giacomo sia veramente lo stesso Gesù di cui si parla per la prima volta nel testimonium flavianum nel libro 18 delle Ant. Giudaiche, sarebbe stato naturale ritrovare un breve accenno sull’operato e la vita di Gesù anche nel riferimento relativo a 20.9.1, che si trova ben due libri dopo il testimonium flavianum. Per esempio nella Guerra Giudaica, libro 2, sezione 118 Giuseppe parla per la prima volta di Giuda il Galileo: “un Galileo di nome Giuda spinse gli abitanti alla ribellione, colmandoli di ingiurie se avessero continuato a pagare il tributo ai romani e ad avere, oltre a Dio, padroni mortali. Questi era un dottore che fondò una sua setta particolare, e non aveva nulla in comune con gli altri“. Nel libro 2, sezione 433, Giuseppe parla per la seconda volta di Giuda: “Fu allora che un certo Menaem, figlio di Giuda detto il galileo, un dottore assai pericoloso che già al tempo di Quirino aveva rimproverato ai giudei di riconoscere la signoria dei romani quando già avevano Dio come Signore, messosi alla testa di alcuni fidi raggiunse Masada“. Qui Giuseppe parla essenzialmente di Menaem, definito come figlio di Giuda: ma per essere sicuro che il lettore comprenda di quale Giuda si sta parlando inserisce un considerevole richiamo alla ribellione contro il tributo preteso dai Romani, di cui al libro 2, sezione 118. Ancora, in Guerra Giudaica, Libro 7, Sezione 533 leggiamo un riferimento che riguarda Giuda: “…Eleazaro, un uomo potente e comandante dei Sicari, che lo aveva preso. Egli era un discendente di quel Giuda che aveva convinto molti giudei, come abbiamo precedentemente riportato, a non sottomettersi alla tassazione quando Quirino venne inviato in Giudea per predisporla” Il cambiamento di contesto da Libro 2 a Libro 7 fa qui addirittura dire a Giuseppe: “come abbiamo precedentemente riportato”. Come dimostrano questi continui richiami a quanto scritto in precedenza, Giuseppe generalmente è scrittore molto meticoloso e preciso nell’indicare i personaggi, raramente lascia qualcosa al caso. Poiché abbiamo parlato della Guerra Giudaica, potrebbe nascere il sospetto che lo stile di Giuseppe sia leggermente diverso nelle Antichità Giudaiche, un libro scritto vent’anni dopo. Ma Giuda il Galileo compare anche nelle Antichità al Capitolo 18, per la prima volta in quest’opera: “C’era un certo Giuda, un Gaulonita, di una città chiamata Gamala, che parlando con Sadduc, un Fariseo, divenne un rivoltoso, ed entrambi sostenevano che questa tassazione era una forma di schiavitù, e esortavano la popolazione a rivendicare la propria libertà.” Giuseppe si riferisce poi a Giuda anche nel Libro 20 delle Antichità: “i figli di Giuda il Galileo adesso erano stati uccisi; intendo quel Giuda che portò la popolazione alla rivolta quando Quirino venne a prendere una parte delle proprietà dei giudei, come abbiamo visto in un precedente Libro.” Come si vede nel libro 20 Giuseppe richiama alla memoria del lettore i tratti salienti di Giuda, citato semplicemente per identificare i suoi figli: “intendo quel Giuda che portò la popolazione alla rivolta“. Così Giuseppe solitamente cura i dettagli e i riferimenti e quando egli torna indietro nella narrazione da Ant. Libro 20 ad Ant. Libro 18, ricorda al lettore che il riferimento è in un precedente Libro. Nessuna di queste modalità è invece applicabile al riferimento di Gesù che compare nelle Antichità Giudaiche 20.9.1. Una interpolazione cristiana naturalmente non aveva bisogno di aggiungere dettagli a riferimenti precedenti: i creatori dell’interpolazione sapevano esattamente di quale Gesù si trattasse. Per questa ragione alcuni pensano quindi che il riferimento a Gesù in 20.9.1, se fosse davvero autentico, avrebbe dovuto necessariamente contenere un riferimento o un richiamo a un brano precedente su Gesù, che peraltro esiste e sarebbe il testimonium flavianum. Pertanto o il testimonium flavianum era assente nell’edizione originale delle Antichità Giudaiche, oppure lo era il passaggio 20.9.1 o addirittura lo erano entrambi i passi e Giuseppe non ha mai inteso parlare di Gesù nella sua opera, in nessun punto.
Ora, contro questo genere di argomentazione, è necessario osservare che non sempre il tanto meticoloso e puntuale stile letterario di Giuseppe trova applicazione. Per esempio in Guerra Giudaica 2.247 si trova, come osservato in precedenza, il riferimento a Felice, fratello di Pallante:
“Dipoi Claudio inviò Felice, il fratello di Pallante, come procuratore della Giudea, della Samaria, della Galilea e della Perea, e trasferì Agrippa da Calcide a un regno maggiore assegnandogli i domini che un tempo erano appartenuti a Filippo, cioè la Traconitide, la Batanea e la Gaulanitide, cui aggiunse il regno di Lisania e l’antica tetrarchia di Varo.”
Il procuratore Antonio Felice viene definito come fratello di Pallante sebbene di questo Pallante non si parli in alcun altro punto della Guerra Giudaica (per Pallante si veda anche il paragrafo 2.3.8 di questo documento). Un caso analogo potrebbe essere accaduto in occasione della citazione di Gesù in 20.9.1, come di Pallante non si precisa nulla, anche di Gesù non si provvede alcun richiamo. Osserviamo, tuttavia, che nel caso di Pallante non viene fornito alcun richiamo in quanto effettivamente questo personaggio non è mai menzionato in alcun altro punto della Guerra Giudaica. Nel caso di Gesù avremmo invece, in teoria, il testimonium flavianum di cui al libro 18 da poter richiamare nel testo. E’ possibile che la specificazione del termine Cristo, che dovrebbe però comparire in entrambi i passaggi relativi a Gesù, abbia permesso a Giuseppe di non precisare ulteriormente di quale personaggio stesse parlando: dopotutto esiste un solo Gesù detto il Cristo in tutta l’opera, nominato in teoria in Ant. 18.3.6 e in Ant. 20.9.1, non vi è certo possibilità di confusione. Nel caso di un nome comune come Giuda o come Gesù (senza l’appellativo di Cristo) una precisazione sarebbe stata doverosa oltre che necessaria, ma con la chiara specificazione dell’appellativo di Cristo, qualsiasi ambiguità scompare. Questa ipotesi, ovviamente, richiede che il termine “Cristo” fosse presente in qualche modo in entrambi i passaggi. Nel caso del testimonium sappiamo che è altamente improbabile che comparisse la frase “Egli era il Cristo” quindi in qualche modo questa frase doveva risultare diversa, certamente espressa almeno in una forma dubitativa.
Il termine Cristo non è mai spiegato
Doherty e Mason hanno poi osservato che in nessun punto delle Antichità viene mai fornita da Giuseppe la spiegazione del significato del termine Cristo, che in greco significa “unto” e per un lettore che non abbia dimestichezza con le usanze e i costumi ebraici del periodo ha ben poco senso. Giuseppe si rivolgeva essenzialmente a lettori greco-romani, che non conoscevano il significato dell’appellativo dato a Gesù. Giuseppe non avrebbe mancato di spiegare il significato di un simile termine, se fosse realmente stato presente nei due riferimenti a Gesù. Da questo si deduce che nel riferimento in Ant. 20.9.1 è impossibile che Giuseppe abbia fatto davvero riferimento a Gesù Cristo. Pertanto poteva intendere un altro personaggio da Giacomo il Giusto e il Gesù menzionato in quel passo poteva essere benissimo un’altro personaggio diverso dal Cristo.
Contro questa argomentazione osserviamo che, come molti altri scrittori antichi, Giuseppe spesso considerava pedanteria spiegare dettagliatamente la derivazione di un titolo o di un soprannome. Per esempio sappiamo che in Antichità Giudaiche 17.5.1 viene spiegato il nome che venne dato al porto di Sebastos in questo modo: “Erode, avendolo costruito con enormi spese, lo chiamò Sebastos in onore di Cesare”. Giuseppe omette la spiegazione tecnica che il nome onorifico di Cesare in latino è Augusto che in greco viene tradotto proprio come Sebastos, da cui deriva il nome del porto: questo collegamento viene completamente dato per scontato, si suppone che il lettore sia a conoscenza di questo elementare, per l’epoca, collegamento storico-linguistico. In tutte le opere di Giuseppe non c’è alcun riferimento a “Cristo”, con la sola eccezione naturalmente del riferimento a Gesù, che in teoria compare in due passaggi diversi delle Antichità Giudaiche. Giuseppe quindi avrebbe potuto utilizzare il termine Cristo come un semplice soprannome, non come un titolo regale, e quindi non ci sarebbe stato nulla da spiegare circa il significato di questo soprannome. Giuseppe semplicemente potrebbe aver assunto che i suoi lettori avessero sentito la parola “Cristo” dalla setta detta dei “Cristiani”, allo stesso modo di Sebastos. Del resto solo dieci anni dopo la stesura delle Antichità Giudaiche Plinio il Giovane (61-112 d.C. circa) scrive all’Imperatore Traiano (Epistola X, 96, 1-9) dalla Palestina utilizzando disinvoltamente i termini Cristo e cristiani come se fossero noti a tutti ed entrati nell’uso comune.
Argomenti a sostegno della autenticità del riferimento Ant. 20.9.1
Oltre a quanto riportato a critica degli argomenti a favore della non autenticità del passaggio Ant. 20.9.1 vi sono anche le seguenti ragioni per ritenere valido non solo l’intero passaggio ma anche la frase relativa al fratello di Gesù detto il Cristo.
L’interpolazione non è di matrice cristiana
Giacomo è definito in Ant. 20.9.1 come il fratello di Gesù Cristo: ton adelphon Iêsou tou legomenou Christou nel testo greco. Il modo in cui nel testo si identifica Giacomo non può essere stato facilmente pensato da un falsario cristiano oppure ispirato da una fonte scritta cristiana in quanto né il Nuovo Testamento né gli scritti dei primi padri della Chiesa parlano mai di Giacomo il Giusto come “il fratello di Gesù Cristo”, alla maniera di Giuseppe Flavio, ma piuttosto come “il fratello del Signore” (ho adelphos tou kyrion) oppure come “il fratello del Salvatore” (ho adelphos tou soteros). Paolo, che non era certo molto affezionato a Giacomo il Giusto, lo chiama comunque “il fratello del Signore” in Galati 1:19 e parla genericamente di “fratelli del Signore” in 1 Cor 9:5, mai di fratelli di Gesù Cristo. Egesippo, lo storico della Chiesa del II secolo d.C. che era un ebreo convertito e probabilmente veniva dalla Palestina, allo stesso modo parla di “Giacomo, il fratello del Signore” (cit. di Egesippo nella Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, 2.23.4). Egesippo parla anche di un “cugino del Signore” (cfr. Storia Eccl., 3.25.5), e anche de “il suo [del Signore] fratello, secondo la carne”. L’utilizzo della formula “fratello di Gesù Cristo” non è certo coerente con il linguaggio del Nuovo Testamento e neppure con quello dei primi padri della Chiesa. Soprattutto nel caso dei padri, il fatto che Gesù potesse avere dei fratelli poteva creare dei sospetti sulla teoria della verginità perpetua di Maria, uno dei dogmi del cristianesimo: per questo ad esempio Origene, dopo aver fatto riferimento al passaggio Ant. 20.9.1 e a quello di Paolo nella lettera ai Galati, si affretta a precisare che Giacomo è detto fratello di Gesù “non per il suo legame di sangue, quanto piuttosto per la sua virtù e la sua dottrina“. Questa argomentazione a sostegno della autenticità del passaggio Ant. 20.9.1 è alquanto robusta: una ricerca sugli scritti dei padri della Chiesa prima del concilio di Nicea, gli scritti extra canonici, e il Nuovo Testamento in effetti non produce passi in cui Giacomo sia identificato come “il fratello di Gesù”, se si escludono le citazioni di Origene ed Eusebio del brano di Giuseppe Flavio. In secondo luogo, il passaggio Ant. 20.9.1 contiene una formula dubitativa: “Gesù detto il Cristo“, non “Gesù il Cristo“. Nel caso di una interpolazione nessun elemento di dubbio sarebbe stato accostato alla specificazione che Gesù era il Cristo, vedi ad esempio lo stessotestimonium flavianum dove troviamo la chiara interpolazione: “Egli era il Cristo“. I cristiani non sono inclini a utilizzare un termine neutro o dubitativo come “detto Cristo” per loro, Gesù è (il) Cristo: e difatti in nessun lavoro canonico ed extracanonico viene mai utilizzata una simile frase.
Esistono vari personaggi chiamati come Giacomo
Almeno cinque persone diverse nei lavori di Giuseppe sono chiamate con il nome Giacomo. Abbiamo Giacomo figlio di Giuda il Galileo (Ant. 20,102) crocifisso per volere di Alessandro al tempo del procuratore Fado, quindi la sua vicenda è molto vicina a quella di Giacomo il Giusto. Il presunto Giacomo fratello di Gesù Cristo (Ant. 20.9.1), identificato dalla Chiesa con Giacomo il Giusto, capo della Chiesa giudeo-cristiana di Gerusalemme. Giacomo figlio di Sosas (Guerra, 6,148), un comandante militare Idumeo dei tempi della guerra giudaica. Infine nella Vita, 18 Giuseppe racconta di un’altro Giacomo, uno dei suoi seguaci quando era comandante militare al tempo della guerra giudaica. Giuseppe quindi doveva necessariamente precisare di quale Giacomo stesse parlando, identificandolo o con il nome del padre o, come ha fatto in Ant. 20.9.1, con il riferimento a Gesù Cristo. A parte i vari personaggi di nome Giacomo presenti nelle opere di Giuseppe Flavio, poiché Giacomo è un nome relativamente molto comune se Giuseppe si fosse riferito solo a “Giacomo, ed alcuni altri” avrebbe creato notevole confusione su quale Giacomo si doveva qui intendere. Soprattutto il lettore greco-romano avrebbe potuto andare incontro a problemi di comprensione.
Contro questa teoria, si può osservare che l’interesse del racconto non è incentrato sulla vicenda di Giacomo ma piuttosto sulla destituzione di Anano dalla carica di sommo sacerdote. E’ possibile, sebbene questo contrasti con la precisione di Giuseppe Flavio, che lo storico non avesse interesse a definire esattamente quale Giacomo stesse riferendo, dato che l’interesse del racconto era concentrato su un’altro personaggio.
Mancata armonizzazione con il racconto di Egesippo
Se un cristiano avesse voluto manomettere questo passaggio, probabilmente avrebbe tentato di renderlo congruente con quanto riportato da Egesippo circa le circostanze della morte di Giacomo il Giusto. Inoltre avrebbe cercato di enfatizzare la descrizione di Gesù e di Giacomo, come nel caso del testimonium flavianum dove sono bene individuabili le evidenti interpolazioni cristiane. Poiché nel complesso il brano non enfatizza né la descrizione di Gesù e tanto meno quella di Giacomo il Giusto – ricordiamo che il brano è incentrato piuttosto sulla descrizione della destituzione di Anano dalla carica di sommo sacerdote – risulta difficile pensare che sia stato emendato da un copista cristiano. Al massimo una glossa con l’indicazione Giacomo = fratello di Gesù può essere accidentalmente finita nel testo (si noti comunque che questa alterazione richiede una modifica della struttura grammaticale della ipotetica frase originaria di Giuseppe, operazione che richiede un certo grado di riflessione).
Egesippo è un padre della Chiesa vissuto verso il II secolo dopo Cristo. Poichè è citato per la prima volta solo da Eusebio di Cesarea nel IV secolo si è anche pensato che sia un personaggio irreale, inventato da Eusebio per conferire maggiore autorevolezza alle proprie fonti storiche nella Storia Ecclesiastica: citare a supporto un autore antico certamente è diverso dall’esporre i fatti in prima persona. M. Baigent e R. Leigh scrivono a tale proposito:
“In un’altra parte della sua storia, Eusebio fa lunghe citazioni tratte da Egesippo, le cui opere a quel che si dice esistevano ancora nel XVI o nel XVII secolo; da allora sono scomparse, anche se è possibile che alcune copie siano conservate in Vaticano e nelle biblioteche di qualche monastero, per esempio in Spagna. Attualmente tutto quello che resta dell’opera di Egesippo lo troviamo citato da Eusebio.” [10]
Citando Egesippo, Eusebio di Cesarea scrive di Giacomo il Giusto nella Storia Ecclesiastica che:
“Giacomo, il fratello del Signore, succedette nel governo della Chiesa assieme agli Apostoli. Egli è stato chiamato da tutti Il Giusto, dai tempi del Signore fino ad oggi. Infatti molti portavano il nome Giacomo, ma solo egli fu santo fin dal grembo materno; non toccò vino nè altre bevande alcoliche [11] e neppure carni di animali; il rasoio non passò sulla sua testa e non si spalmò mai di olio, nè fece mai uso di bagni. A lui solo era permesso di entrare nel Santuario: infatti non portava vestiti di lana ma di tessuto di lino. Entrava solo nel Tempio e lo si trovava ogni giorno in ginocchio a implorare perdono per il popolo, al punto che le ginocchia gli si erano fatte dure come quelle di un cammello. Per la sua straordinaria equità fu chiamato il Giusto e Oblias che significa in greco Baluardo del popolo e Giustizia, secondo quello che i profeti scrissero di lui.” [12]
Questa citazione di Egesippo pone enormi problemi storici. E’ molto interessante notare come a Giacomo fosse consentito il rarissimo privilegio di entrare nel Santa Sanctorum del Tempio di Gerusalemme come fosse un sacerdote di alto rango: soltanto al Sommo Sacerdote era infatti permesso di entrare in quel luogo del Tempio. Come è possibile che Giacomo il Giusto, fratello di Gesù Cristo, figlio di gente umile, ricoprisse un incarico così elevato? Come si spiega che un cristiano seguace di Gesù avesse un simile potere? Come lo aveva acquisito? E’ possibile che Egesippo ed Eusebio intendessero riferirsi ad un “Tempio” diverso da quello di Gerusalemme ed egli non fosse quindi un Sommo Sacerdote giudaico? [13] Inoltre Giuseppe Flavio racconta che furono i sacerdoti di Gerusalemme, guidati dal sommo sacerdote Anano, a condannare a morte Giacomo il Giusto dopo un processo davanti al Sinedrio. La morte di Giacomo il Giusto è invece così raccontata da Egesippo, citato da Eusebio di Cesarea:
“Ora, alcuni di quelli che appartenevano ai sette gruppi che esistevano presso il popolo, già da me descritti nelle note, gli chiesero [a Giacomo il Giusto]: ‘Cos’è la porta di Gesù?’ Ed egli rispose che era il Signore. A causa di questa risposta alcuni credettero che Gesù era il Cristo. Le sette prima menzionate non credevano affatto nella resurrezione e neppure nella venuta di Uno che sarebbe venuto a giudicare gli uomini secondo le loro opere; ma quelli che si convertivano, credevano per mezzo di Giacomo. Così quando molti, alcuni persino della classe dirigente, iniziarono a credere queste cose, ci fu grande agitazione tra i Giudei, gli scribi e i Farisei che dissero: ‘Ancora un poco e tutta la gente riconoscerà Gesù come il Cristo.’ Di conseguenza andarono in grande numero da Giacomo e gli dissero: ‘Ti scongiuriamo, respingi il popolo perchè tutti si stanno convincendo che Gesù era il Cristo. Ti supplichiamo di dissuadere da Gesù tutti quelli che sono venuti finora dal giorno della Passione. Perchè noi tutti ascoltiamo le tue parole di persuasione. Noi e tutto il popolo diamo testimonianza che tu sei Giusto e non tieni la parte di nessuno. Convinci il popolo a non avere opinioni sbagliate su Gesù: perchè tutto il popolo, così come noi, ascolta le tue parole. La popolazione si è radunata qui In modo da seguire la Pasqua [ebraica] e sono presenti anche alcuni dei pagani’. Gli scribi e i Farisei portarono allora Giacomo fino alla sommità del Tempio e gridarono: ‘O giusto uomo, a cui noi tutti obbediamo, dal momento che la popolazione è in errore e segue Gesù il crocifisso, dicci qual’è la porta di Gesù il crocifisso!’ Ed egli rispose con voce orgogliosa: ‘Perchè mi chiedete di Gesù il Figlio dell’Uomo? Egli siede in Cielo, alla destra della Grande Potenza e verrà su una nube del cielo!’ Molti si convinsero di queste parole ed elogiarono Giacomo per la sua testimonianza e Giacomo disse: ‘Osanna al Figlio di Davide!’ Allora i Farisei e gli scribi dissero tra loro: ‘Abbiamo sbagliato a procurare questa testimonianza a Gesù! Saliamo e buttiamolo giù in modo che possano spaventarsi e non credergli più!’ Allora gridarono forte: ‘L’uomo giusto è in grande errore!’ Così adempirono le profezie di Isaia: ‘portiamo via l’uomo giusto perchè ci dà fastidio: mangerà i frutti delle sue opere‘. Quindi salirono e lo gettarono di sotto. E si dissero ancora l’un l’altro: ‘Lapidiamo Giacomo il Giusto’. E cominciarono a prenderlo a sassate, poichè non era morto nella caduta. Ma egli riuscì a dire: ‘Ti prego, Signore Dio e Padre, perdonali perchè non sanno quello che fanno!’ Mentre lo lapidavano, uno dei sacerdoti, i figli di Rechab, il figlio di Rechabim di cui è data testimonianza anche dal profeta Geremia, iniziò a gridare forte: ‘Fermatevi! Che cosa fate? Quest’uomo sta pregando per noi!’ Allora uno di loro, un lavandaio, preso il bastone con cui lavava i panni, colpì sulla testa il Giusto, che morì da martire in questo modo. Lo seppellirono sul posto e il cippo è ancora là, vicino al Tempio. Quest’uomo fu un autentico testimone per i Giudei e per i Greci che Gesù era il Cristo. Subito dopo Vespasiano assediò la città.” [14]
Si tratta di una descrizione abbastanza diversa da quella che compare nelle Antichità Giudaiche, dove Giuseppe Flavio afferma che Giacomo venne processato dal Sinedrio per volere del sommo sacerdote Anano e quindi lapidato. Eusebio, citando Egesippo, sostiene invece che Giacomo venne attirato in una parte alta, una terrazza del Tempio di Gerusalemme dagli scribi e dai farisei e quindi ucciso come sopra descritto. Nel complesso, leggendo il Capitolo 23 del secondo libro della Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea apprendiamo quindi da Egesippo, citato da Eusebio, che Giacomo il Giusto svolgeva o aveva svolto nel passato funzioni sacerdotali di primissimo piano, la sua morte avviene secondo modalità ben diverse da quelle dell’assassinio del Giacomo menzionato nelle Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio, inoltre Giacomo il Giusto venne ucciso poco prima dell’assedio della città di Gerusalemme, verso il 68-69 dopo Cristo, quattro anni dopo l’uccisione del Giacomo descritto da Giuseppe Flavio. La vicinanza della morte di Giacomo il Giusto all’assedio e quindi alla successiva caduta di Gerusalemme potrebbe spiegare perchè alcuni padri della Chiesa sostenevano che la popolazione di Gerusalemme attribuiva a quell’esecuzione ingiusta la causa di tutti i mali caduti addosso alla città e agli ebrei, sebbene, come abbiamo detto, nella attuale edizione delle Antichità Giudaiche o della Guerra Giudaica non esista alcun passo in cui Giuseppe Flavio riporti questo curioso punto di vista. Tutte queste anomalie, potrebbero anche autorizzare una visione alternativa: il Giacomo menzionato da Giuseppe Flavio sarebbe il “vero” fratello di Gesù e un personaggio più umile del Giacomo il Giusto menzionato dagli storici della Chiesa. Costoro potrebbero essersi confusi e aver pensato che Giacomo il Giusto fosse il fratello di Gesù e lo avrebbero quindi confuso con Giacomo il fratello di Gesù. Questa teoria da un lato spiega alcune anomalie, però ha il difetto di non spiegare perchè Giuseppe Flavio, pur riportando l’assassinio del fratello di Gesù, abbia poi omesso di registrare l’assassinio di Giacomo il Giusto, un personaggio certamente più importante e influente nel mondo ebraico. E’ possibile che il passo in cui se ne parlava sia andato perduto oppure sia stato censurato per qualche motivo, sebbene questa ipotesi non sia dimostrabile. Come ha pensato anche Eisenman è possibile che, se davvero presente, questo episodio si trovasse nella Guerra Giudaica in prossimità dell’attuale paragrafo 6.5.3 dove Giuseppe Flavio riporta effettivamente alcune voci del popolo sulle sciagure di Gerusalemme.
NOTE AL TESTO
[1] Sia che si riferisca ai cristiani come li intendiamo oggi oppure ai cristiani intesi come i continuatori-trasformatori del più antico movimento esseno, non risulta all’autore del presente documento che la lettera di Plinio il Giovane sia mai stata messa in discussione per quanto riguarda l’autenticità dei termini cristiani (lat. christiani) e Cristo (lat. Christo) in essa contenuta, neppure dai più strenui avversari della storicità di Gesù.
[2] Giusto di Tiberiade fu uno storico ebreo del I secolo d.C. che, come Giuseppe Flavio, combatté durante la guerra giudaica. Fu protagonista di una polemica con Giuseppe Flavio, nella cui Vita è ricordato, in quanto calunniava Giuseppe per il suo tradimento e collaborazionismo con i Romani. Le opere di Giusto di Tiberiade comunque sono in gran parte andate perdute, sappiamo che scrisse una storia della guerra giudaica e una cronaca del popolo ebraico (o dei re dei Giudei) da Mosè fino al regno di Agrippa II della quale sono note soltanto alcune citazioni in altri autori. Nel IX sec. d.C. il patriarca di Costantinopoli Potius scrive: “XXIII. Read the Chronicle of Justus of Tiberias, entitled A Chronicle of the Kings of the Jews in the form of a genealogy, by Justus of Tiberias. He came from Tiberias in Galilee, from which he took his name. He begins his history with Moses and carries it down to the death of the seventh Agrippa of the family of Herod and the last of the Kings of the Jews. His kingdom, which was bestowed upon him by Claudius, was extended by Nero, and still more by Vespasian. He died in the third year of Trajan, when the history ends. Justus’ style is very concise and he omits a great deal that is of utmost importance. Suffering from the common fault of the Jews, to which race he belonged, he does not even mention the coming of Christ, the events of his life, or the miracles performed by Him. His father was a Jew named Pistus; Justus himself, according to Josephus, was one of the most abandoned of men, a slave to vice and greed. He was a political opponent of Josephus, against whom he is said to have concocted several plots; but Josephus, although on several occasions he had his enemy in his power, only chastised him with words and let him go free. It is said that the history which he wrote is in great part fictitious, especially where he describes the Judaeo-Roman war and the capture of Jerusalem.” (da: J.H. Freese, The Library of Pothius, vol. I, SPCK, London, 1920). Filone di Alessandria, vissuto anch’esso nel I secolo d.C., probabilmente morì troppo presto, verso il 50 d.C., per poter scrivere qualcosa sui cristiani, inoltre egli era più interessato a problemi filosofici, religiosi e naturalistici che non storici o cronologici. Verso il 40-50 d.C. i cristiani non potevano avere una importanza storica da essere citati o disquisiti nelle opere di Filone di Alessandria.
[3] L’esistenza di Gesù Cristo come personaggio storico non fu mai messa in discussione fino alla fine del XVI secolo. Nel 1592 il teologo tedesco luterano Lucas Osiander sostenne tra i primi la non autenticità di alcune fonti utilizzate dalla Chiesa Cattolica di Roma per scrivere la propria storia. Tra queste prove storiche spiccava ovviamente il testimonium flavianum di Giuseppe Flavio. Ma le tesi di L. Osiander erano piuttosto asserzioni fatte a priori, senza sufficienti prove storiche e filologiche a sostenerle. I primi a portare prove testuali a sostegno della non autenticità del testimonium flavianum furono Louis Cappel (1585-1658), Jean Daillè (1594-1670) e Tanaquilius Faber (1615-1672). Il dibattito sulla non esistenza di Gesù si sviluppa in modo massiccio durante l’illuminismo e nei secoli successivi.
[4] Eusebio nel suo scritto Contro la difesa di Ierocle confuta l’esaltazione fatta dal neoplatonico Ierocle del santone pagano Apollonio di Tiana, che i pagani ritenevano superiore a Gesù Cristo.
[5] Schlomo Pines, An Arabic Version of the testimonium flavianum and its Implications, Jerusalem, Israel Academy of Sciences and Humanities, 1971.
[6] G.J. Goldberg, The Coincidences of the testimonium of Josephus and the Emmaus Narrative of Luke, The Journal for the Study of the Pseudoepigrapha, 13, 1995, pp. 59-77.
[7] Luca è estremamente esplicito nel precisare che furono soltanto due angeli ad apparire alle donne presso il sepolcro, cfr. Luca 24:4-6 e Luca 24:22-24. Matteo sostiene invece che le prime a vedere Gesù risorto furono Maria e Maria di Magdala (cfr. Matteo 28:9). Una affermazione simile a quella di Matteo è riportata anche in Giovanni 20:14-18, in cui però si parla solo di Maria di Magdala. Il racconto della apparizione ai discepoli di Emmaus è attestato solo dal Vangelo di Luca.
[8] Probabilmente Origene si riferisce qui a Galati 1:18-19 “In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore.”
[9] Notare che gli ammonimenti di questo Gesù somigliano molto a quelli di Gesù Cristo riguardanti la predizione della distruzione del Tempio.
[10] M. Baigent, R. Leigh, I misteri del Mar Morto, Fabbri Editori, Milano, 2005, pag. 198 (la prima edizione di questo libro è stata pubblicata in Inghilterra nel 1991 con il titolo The Dead Sea Scrolls Deception).
[11] Il testo greco utilizza qui il termine s…kera che compare anche in Luca 1:15, il solo passo del NT in cui compaia questa parola. Si tratta di una bevanda alcolica diversa dal vino, un prodotto artificiale fatto da una mistura di ingredienti dolci derivati o dal grano o da altri vegetali, dal succo di frutti (come datteri) o anche dal miele.
[12] Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, 2.23
[13] E’ importante osservare comunque che il testo greco della Storia Ecclesiastica utilizza t¦ ¤gia invece che Santuario, come riportato nella traduzione. agia è un aggettivo greco che significa “santo”, “degno di venerazione” per cui si pensa che entrare nel “venerabile” significhi nel racconto di Egesippo entrare nel Santo dei Santi del Tempio di Gerusalemme. Tuttavia dobbiamo anche ricordare che questo luogo viene indicato nel Nuovo Testamento greco quasi sempre con un preciso termine, naÒj, utilizzato per riferire il Santo dei Santi del Tempio di Gerusalemme. Pertanto è possibile pensare che Egesippo non intendesse dire che Giacomo il Giusto aveva accesso al Santo dei Santi del tempio di Gerusalemme come fosse un sommo sacerdote, ma forse volesse descrivere una sua funzione nell’ambito della Chiesa di Gerusalemme dove forse esisteva una piccola struttura che i cristiani utilizzavano in alternativa al Tempio. La frase successiva secondo la quale egli entrava “da solo nel Tempio” forse significa che Giacomo andava a pregare senza i suoi seguaci nel Tempio a Gerusalemme. E’ interessante notare che l’unico caso in cui si nota nel Nuovo Testamento l’utilizzo di t¦ ¤gia è nella lettera agli Ebrei, dove Paolo nei Capp. 9 e 13 parla del Santo dei Santi chiamandolo proprio con l’aggettivo greco “santo” ¤gia. Se quindi Egesippo ha utilizzato la stessa terminologia di Paolo e intendeva riferirsi al Tempio di Gerusalemme, come sembra evidente dal contesto, dovremmo concludere che Giacomo il Minore era un sommo sacerdote.
[14] Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, 2.23